Un simbolo è un’immagine potente: in esso si raccolgono valori e significati, concetti e tradizioni. Me ne sono accorto la prima volta che ho esaminato una cartina per strada ad Hiroshima.
Mi ero perso per le vie della città, e come farebbero tutti mi sono rivolto ad una mappa per riuscire a tornare in hotel. Con grande stupore i miei occhi si sono trovati davanti una sequela di figure che, da europeo, mi hanno lasciato a bocca aperta: svastiche, svastiche ovunque.
Per un secondo mi è sembrato di essere davanti ad una reliquia del Terzo Reich. Capirete il mio stupore: nel nostro universo di totem e tabù, uno dei pochi dati universalmente condivisi è l’automatica repulsione per la croce uncinata.
Mi sono messo ad osservare con più attenzione la carta e cosa avevo intorno, e ho risolto l’inghippo: la svastica, in oriente, è il simbolo topografico che si usa per indicare un tempio - proprio quello che, come da disegno, avevo alle mie spalle.
(è una mappa di Kyoto, ma l'idea comunque è questa)
Dodici ore di volo tra la Vecchia Europa ed il Sol Levante sono sufficienti per ribaltare decenni di paura ed educazione. Innanzitutto, per noi la svastica è sempre nera, inserita in un cerchio bianco, a sua volta in un rettangolo rosso: ce la immaginiamo sventolare dai palazzi di una Berlino grigia e inflessibile, o al braccio di una uniforme grigioverde.
È un simbolo che ci ricorda la seconda guerra mondiale, gli orrori nazisti e i racconti dei nostri nonni. Contemporaneamente, è un simbolo che da allora fa paura, mette a disagio, ha una precisa connotazione storica e politica. Nessuno lo sfoggia sui propri abiti se non per provocare o dare un chiaro segnale di appartenenza, e se per caso un bambino la disegna su un quaderno a scuola viene subito – gentilmente, ma fermamente – rimproverato.
Per questo parlavo di educazione: in fondo si tratta di quattro semplici linee spezzate, in sé e per sé del tutto inoffensive. Ma la nostra esperienza, la nostra storia e il nostro passato ci hanno insegnato a diffidare di quel simbolo. Perché quel simbolo parla alla nostra cultura una lingua che non vogliamo più sentire.
La cultura asiatica non è stata così traumatizzata da questa immagine, ed è per questo che tutt’oggi la utilizzano con estrema facilità ed innocenza. Insomma, è quello che gli studiosi descrivono quando parlano di formazione culturale dei singoli territori.
Infatti vale anche l’opposto. Ora vi spiego.
Questa è la bandiera da guerra nipponica - che, tra l’altro, troneggia sulla parete di camera mia – ed è una bandiera, per noi, di un mondo lontano anni luce. Significa cultura pop, cartoni animati, fumetti e moda stravagante.
L’avevo comprata in Italia, e me l’ero portata dietro per poi farla firmare dai miei amici ed appenderla al muro con autografi e messaggi presi in loco.
Una sera l’ho tirata fuori dallo zaino durante una lezione di Karate, pensando di fare una cosa banale. Dopo i primi sorrisi di circostanza l’atmosfera ha cominciato ad appesantirsi: con la stessa gentilezza della maestra alle prese col bambino, i ragazzi del Dojo (la palestra di arti marziali) mi hanno raccontato che cosa per loro significava quella bandiera. La loro memoria andava, con lo stesso automatismo che io utilizzavo per la svastica, allo stesso evento e allo stesso dolore. La guerra, e tutto ciò che ne deriva.
I simboli hanno il valore che gli attribuiamo: quella sera, sui tatami sudati, mi è diventato molto più chiaro.
Topsy Kretts
@twitTagli