Smiley e Prideaux, egregiamente interpretati da Gary Oldman e Mark Strong, rappresentano pienamente l’anima cupa e tormentata de La talpa: validi professionisti all’apparenza imperturbabili e glaciali, ma intimamente instabili e lacerati. Semplicemente uomini, prima ancora che agenti in divisa. Al di là degli avvenimenti storici e politici realmente accaduti negli anni ’70, il protagonista del film di Alfredson è l’uomo. Le relazioni umane reggono l’intera pellicola, la quale vive di silenzi, sguardi e taciti gesti. Impercettibili, ma essenziali al racconto e ai legami dei protagonisti. È il cuore con le sue impetuose intermittenze a parlare. Ciò che interessa al regista svedese è la complessità dei rapporti umani, già splendidamente rappresentati e raccontati in età adolescenziale nel sorprendente Lasciami entrare; adesso però ci troviamo di fronte a uomini adulti già pienamente contaminati delle regole sociali e dall’utile personale, per cui la consapevolezza di un rapporto puro e sincero non esiste più. La ferocia e l’ingordigia logorano i legami umani e modellano individui intimamente dilaniati e instabili, ai quali è imposta una condotta consona ai principi sociali condivisi dall’intera comunità. Ecco perché la scelta di analizzare i rapporti istauratisi all’interno dei servizi segreti rende la questione ancora più interessante, in quanto ci troviamo di fronte a individui a cui è richiesto di non fallire, di rimanere attenti e vigili e di subordinare le emozioni al dovere; e in questo senso il trio Oldman-Strong-Firth è estremamente emblematico.
La talpa è soprattutto una storia di amore e amicizia, di lealtà e tradimento, di perdono e vendetta, che non fa né vincitori né vinti, ma che descrive le dinamiche sociali e i rapporti umani in maniera eccellente, dispiegando tutto il non detto, e dilatandolo fino alle estreme conseguenze. Il motore di questa pellicola si annida proprio nei silenzi e negli sguardi dei suoi protagonisti, abituati a trattenere e nascondere; sguardi e silenzi che celano un vortice emozionale inarrestabile, il quale spinge i personaggi ad agire raggelando le emozioni e incanalandole su una divisa. Ogni inquadratura, suggestiva e accuratamente costruita, si relaziona al suo opposto, ossia al caos e al disordine interiore che Alfredson intende raccontare; lo spirito ancestrale e caotico che aleggia sull’opera, e che costituisce il cuore della pellicola, logora e divora le immagini e i suoi personaggi, finendo per diventare il solo protagonista. Il perfetto equilibrio tra l’apparente compostezza delle immagini e dei protagonisti e la loro insofferenza del tutto interiore è probabilmente il punto più alto dell’opera di Alfredson, il quale ha fatto dei contrasti tra forma e contenuto la sua cifra stilistica.
La scelta di utilizzare un genere specifico, horror nel caso di Lasciami entrare e spy story anni ’70 nel caso de La talpa, è funzionale alla poetica cinematografica del cineasta svedese, poiché consente di inserire l’uomo all’interno di contesti sociali precostituiti e restrittivi e di analizzare la complessità e l’irrazionalità dei rapporti umani. E se lo spionaggio richiede un controllo maniacale della materia trattata e indagata, allora possiamo dire che Alfredson e gli sceneggiatori Bridget O’Connor e Peter Straughan sono perfetti agenti/spie sottocopertura. La regia e la sceneggiatura, assolutamente impeccabili, hanno reso La talpa una delle spy story più interessanti degli ultimi anni. Allo stesso modo il cast, capitanato da uno straordinario Gary Oldman nominato all’Oscar per la silente interpretazione, ha contribuito a rendere la pellicola indimenticabile; la sensibilità e l’umanità degli attori scelti ha dato al lungometraggio una sfumatura più delicata e malinconica, perché ad Alfredson è questo che interessa. L’uomo, prima ancora che l’agente o la spia. L’uomo e le intime e impetuose intermittenze del suo cuore, prima ancora che l’istrionismo di un attore.