Quella Jess, di cui alla flessione, che appare sulla bicicletta e si gira a guardarmi da pinġapā, mi ha riportato alla mente un fatto che avevo completamente dimenticato: lustri fa, non saprei al momento quantificarli, si può pensare che siano 4, 3 o addirittura 5, durante la mia passeggiata pomeridiana, nella controra, ovvero, come scrisse il poeta nello Zen di Mia Nonna, quando lo spirito vola nella controra, che ero uso fare sul lungomare della cittadina in cui a quell'epoca ebbi la disgrazia e la coercizione di abitare, in una determinata stagione, metti che fossimo nel mezzo della primavera, quindi tra maggio e giugno, cominciò, ogni giorno, a offrirsi al mio sguardo una ragazza e la sua bicicletta, ricordo l’accuratezza con cui la giovinetta attuava la manifestazione o l’ostensione, se vogliamo, si portava quasi sempre a ridosso del poeta, e ne chiedeva l’attenzione facendo sul sellino e sui pedali tutte le pressioni e gli esercizi che servono a rallentare la velocità e ad allungare il piacere della pulsione tattile, insomma il chilometro da fermo era fatto tutto in surplace, quando il poeta si metteva in sosta e si appoggiava al muretto a leggiucchiare, la ciclista, con i suoi calzoncini bianchi, una bella stradista o passista adolescente e carnosa, con un podice da seigiornista, se su pista, e da gigante della montagna, se su strada, “raggiungeva il fuggitivo”(il poeta) e lanciava la volata al suo oggetto a, producendosi in un innocente quanto inopportuno , perché evidente esercizio fatto apposta, e perciò spunto finale assoluto per bruciare sul traguardo l’oggetto a del poeta, che, è la verità, non dette mai risposta di partecipazione né al surplace che alla volata della libido; ebbe a inscenare, un altro giorno, la lungomarista, una piccola caduta e, poi, ancora, non so se un altro giorno, il controllare ostinatamente, mentre il poeta leggeva, con il piede sulla ringhiera se l’alluce fosse a posto, intanto che il grosso era stato lasciato proprio a due passi in faccia al poeta. Ora, a distanza di lustri, io non so se quella ragazza, che tenni in archivio come quella del “chilometro da fermo” o il “surplace –pour-l’enzuvë”, sia diventata Jess, quella del principio fallico della flessione, e che quei calzoncini bianchi li abbia nel tempo sostituiti con il genere 42 del sistema della moda di Roland Barthes, ma, se ben rivedo quel surplace o quello che fece collimare all'orizzonte del poeta controllandosi quel giorno per infiniti minuti l’alluce, non posso che rimirarla, adesso che ho qui in pinġapāl’immagine, nella “flessione” che attua sul sellino rendendo presente quella “modificazione prossima inattesa” dell’oggetto a del poeta che leggeva.Stando così le cose e l’evoluzione della forma, pedalando nel mio oggetto a, Jess[i]se è questa quella che fu, è la specialista delle tappe a cronometro.
[i] Che potrebbe starci se quella ragazza fosse stata Gessica, che non era impossibile, anche se mai si dette animo il poeta per chiederle come ti chiami, fanciulla che mi fai il surplace e vorresti, oh, si vede che è questo che vuoi, vorresti passare all’enzuvë, non hai inscenato l’altro giorno la piegatura verso l’alluce per fare la flessione del tuo podice infinito cielo perché passando al mio meridiano l’enzuvë in quella distesa potesse fare la volata e il surplace, il volatone, lo spunto finale e l’arrivo solitario? Se vai a vedere, non è escluso che in quegli anni, forse all’inizio degli anni novanta, una produttrice di gelati , la “Gessyca”, appunto, sponsorizzasse qualche squadra di ciclisti, anche perché l’enzuvë, pur facendosi col sellino o col manubrio, o quantomeno nella struttura del telaio, e l’azione, come schema verbale, del pedalare, è speculare alle azioni del leccare, del succhiare e del mantecare, e , essendoci la bicicletta, il gelato sarebbe da passeggio o da asporto, anche per via del fatto che nel caso di quella Gessica la gelateria, o, meglio, la cremeria, per farci l’enzuvë, era lì in flessione sul sellino a produrre tutti i tipi di gelato per l’enzuvë del poeta.