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La teologia del debito – “Il debito del vivente. Ascesi e capitalismo” di Elettra Stimilli: una lettura.

Creato il 07 luglio 2013 da Rosebudgiornalismo @RosebudGiornali

478px-Prince_Bernhard_1942di Giuseppe Leuzzi. “L’indebitamento è divenuto planetario, come forma estrema di coazione al godimento… E come tale deve essere riprodotto, piuttosto che saldato”. La contemporaneità ci vuole in debito, inestinguibile. È una sorta di usura esistenziale. Viviamo indebitati, moriamo indebitati, dopo una vita vissuta nella colpa di non aver fatto abbastanza. L’analogia viene spontanea anche con la retorica imperante del debito. Un senso di colpa non più metafisico (si dice “esistenziale”, l’angoscia eccetera, è – era – metafisico) ma performativo. E perciò invasivo, in ogni attimo quotidiano se non pure nel sonno, mai così diffusamente agitato, in ogni animo, eletto e non, in ogni attività, sia pure quella del demente che Henry Ford voleva aprisse la porta per potergli dare un salario – Stimilli elenca varie manifestazioni del disagio: anoressie, bulimie, l’interminabile serie delle tossicodipendenze, depressioni, attacchi di panico, le fobie sono epidemiche.
Sembra Pound, l’usura che regge il mondo, tema fantastico. Sotto le specie dell’ascesi, un esercizio sadomasochistico. Ma Elettra Stimilli lo porta a terra e ne scioglie le pieghe, ne valuta l’anamnesi , ne spiega i significati. Col supporto non detto di un’altra tesi immaginifica, la servitù volontaria dell’amico di Montaigne morto giovane, La Boétie. E della patristica (altro ricorso poundiano!). Siamo tutti lavoratori, coatti alla soma, a estinguere il debito nel mentre che lo ricostituiamo. E – anche se – ce ne facciamo un’ascesi, l’etica superiore della rinuncia. O una voglia (una tentazione, un vizio) non avida. Più fantastico ancora è lo svuotamento dell’usura (interesse, capitale) nell’azione senza scopo che la filosofa indaga. A un passo dall’ascesi, o rifiuto del mondo, quale prassi sotterranea e vera della cristianità, che è la novità assoluta della sua ricerca. Elaborata in una filosofia infine eloquente. Persuasiva anche. Acquisire attraverso il rifiuto, “la pratica masochistica dell’ascesi”, è un approccio specialmente fecondo oggi. Una delle poche filosofie che è possibile leggere – il resto è ermeneutica.
Elettra Stimilli parte dalla “produttività senza scopo”, che è la “finalità senza scopo” di cui Kant non si capacitava (il “lavorerio” di cui san Carlo Borromeo faceva una colpa ai milanesi). Dal “discorso del capitalista” in cui l’apodittico Lacan ha racchiuso la contemporaneità. Dalla nozione di “potere governamentale” (economico-politico) su cui ha indagato Foucault e dalle sue ipotesi sull’ascetismo tardo antico. Dal “nesso problematico da lui individuato tra «potere pastorale cristiano» e «potere economico-governamentale»”. Dalla “genealogia teologica dell’economia e del governo” di Agamben. Da Nietzsche naturalmente, che nella “Genealogia della morale” riporta (imputa) l’etica al debito-colpa – entrambi sono Schuld in tedesco. Ma soprattutto dalla vecchia, trascurata, nozione di Max Weber sull’accumulazione quale “profitto per il profitto”, più che come interesse (avidità personale) o la spenceriana sopravvivenza del migliore del cosiddetto darwinismo sociale. Nozione dal primo Walter Benjamin, fervente neofita comunista, ribaltata nel “capitalismo come religione”, il lungo appunto del 1921 con questo titolo qui tradotto nella sua integralità – ora ripreso negli “Scritti politici”, antologia a cura di Massimo Palma. Perfino Marx, a una rilettura, si trova avere avuto un’intuizione, benché trascurata, sulle radici del misterico feticcio merce nella “nebulosa regione del mondo religioso” – Marx che, a fini politici, ha estremizzato l’utilitarismo nell’odio di classe, al fine dello scioglimento della storia.
Stimilli parte da una rilettura di Weber più aderente a ciò che Weber è e ha scritto – purtroppo ridotto in Italia più spesso a sciocco polemista del buon protestantesimo, dall’etica “superiore”. Legandolo, all’altro estremo di una sorta di arco voltaico, a Georges Bataille e all’economia della dépense, dello spreco. Anche se bizzarramente ne lega il non-utilitarismo alla fede di Lutero, e più a quella di Calvino, lasciando l’utilitarismo alle opere: una posizione non weberiana, un cascame del secolare Kulturkampf oltremontano tedesco, antilatino e anticattolico – il “lato dispendioso e improduttivo della natura umana” non sta certamente dalla parte di Calvino, o “la dimensione donativa e disinteressata della grazia”. E ne trova tracce sorprendenti nella patristica, in Ireneo di Lione, Clemente Alessandrino, Origene, Evagrio Pontico, l’ispiratore dell’esicasmo, Giovanni Cassiano. E in molta teologia cristiana, specie cattolica. Non inconciliabile alla fine con l’ascetismo quale rifiuto del mondo, che Overbeck, l’amico e complice di Nietzsche, stringente pone a segno profondo del cristianesimo, nelle sue ripetute trattazioni del monachesimo, anche se Stimilli lo vuole curvato sul rifiuto attivo, “produttivo”.
L’approdo è sorprendente. L’economia risulta “la forma in cui si è espressamente realizzata l’esperienza di vita in Cristo sin dalle sue origini”, prima di diventare un problema. Seguendo una linea ineccepibile: “L’«economia», così come viene elaborata dal primo cristianesimo, fa riferimento all’esperienza della libertà dal nómos che caratterizza la sua fede… Qui, per la prima volta in maniera così netta, la vita di ciascuno assume la forma di un investimento. L’esperienza del peccato, su cui si fonda l’esistenza cristiana, compiutamente diviene esperienza di un debito che, attraverso il dono della grazia, non deve essere colmato ma, come tale, amministrato nella forma di un investimento”. Certo, non si può dire cristiano in nessun modo il debito contemporaneo. Ma esso è pur sempre l’esito di una sfida a perdere – che altre indagini hanno ricondotto alla pulsione del gioco, dell’azzardo. Uno scandaglio continuo della realtà come nuova esperienza: l’uomo occidentale, cristiano, investe “non sulle opere e sui loro effetti, ma sulla sua stessa prassi, i cui fini appaiono fondamentalmente senza scopo”. Una tensione che si condensa in molti momenti lungo la storia del cristianesimo (dell’Occidente), e in particolare nella beatitudine francescana, rinunciataria e operosa: “L’utilità e il valore non dipendono tanto dal possesso, quanto piuttosto dalla possibilità di investire su ciò che, non potendo essere posseduto in maniera definitiva, non è utile alla realizzazione di un fine determinato, ma rimanda piuttosto all’autofinalità implicita nella prassi umana”.
Stimilli fa la scoperta del cristianesimo. Di più di quello pre-Riforma, occultato dal laicismo positivista, e poi dalla lettura infedele di Max Weber, in termini di “superiorità” – ridicolmente settaria a fronte della globalizzazione, degli animal spirits oggi sfrenati dell’economia, il gioco a dadi forse più azzardato dell’intera storia economica. L’esito è una rivisitazione vertiginosa della storia. Col sicuro contributo di verità a lungo obliterate, di condizioni, cognizioni e azioni che sono una più valida (veritiera) strumentazione ontologica e gnoseologica, del modo di essere e di leggere la condizione umana. E un approccio – su cui echeggia, seppure flebile, l’“atto gratuito” di Gide – che ribalta l’ontologia esistenziale e la logica del secondo Novecento, dalla rilettura francese di Heidegger al pensiero debole. “Ciò che” non può “essere posseduto in maniera definitiva”, è il mondo, e l’essere al mondo.
La disciplina alla libertà
La “vecchia” ipotesi weberiana dell’“ascesi intramondana” non è speciosa o insensata come sembra – l’“ascesi intramondana” è concetto di Ernst Troeltsch, teologo luterano, studioso di M.Weber. Né impositiva, una sorta di frusta segreta del padrone: è il fondamento liberista e liberale, dell’iniziativa e dell’imprenditoria, il capitale si riproduce, fare è creare, ed è il fondamento della libertà, da Constant e Tocqueville (e Marx) in poi. Non escluso lo stesso Weber, “nei termini di una spontanea convergenza”, parafrasa Stimilli, “delle libertà individuali in una sorta di «interesse disinteressato» allo stesso tempo, di tutti e di ciascuno, attraverso cui una forma prevalentemente economica del potere viene elaborata”. Che sarà la “disciplina alla libertà” di Hayek. Comune, volendo restare alla teologia, al chassidismo nella rilettura di Buber – dopo aver vissuto, anche lui, il “disincanto” di Weber: la scommessa, il pari pascaliano, divenuto evento esistenziale nella shekiné, la presenza divina nell’ammasso di polvere e gas che fa il mondo.
È anche un fatto. E una logica della storia che ne spiega alcune illogicità, i tanti punti non coincidenti, quando non contrastanti, con le critiche (logiche) fondative della contemporaneità, di Marx e dello stesso A. Smith: le signorie, l’imperialismo (il suo dare e avere è sempre in perdita, anche nella formula “perdite pubbliche, utili privati”), le missioni (religiose, umanitarie, culturali o di civiltà), l’impresa. Anche se nella realtà è una bugia, seppure convincente: la grande Bugia Economica è lo strumento più sofisticato di dominio, democratico e perfino progressivo. In contrasto, certo, con i “limiti allo sviluppo”, l’ideologia malthusiana elaborata quarant’anni fa dal club di Roma, animato da Aurelio Peccei, manager Fiat, un club di gentiluomini che commissionava a Leontief e altri scienziati del Mit gli studi sull’esaurimento del petrolio e delle altre risorse fossili, nel quadro della “fine del capitalismo”. Rilanciata nei tardi anni 1980 dal terzomondismo “risentito” (Latouche), dei delusi da un mondo povero (apparentemente) senza fondo. Oggi peraltro la crisi è duplice: finanziaria (dei subprime, i mutui senza garanzie, e del debito pubblico non sostenibile) e delle materie prime, agricole e minerarie, i cui prezzi sono triplicati negli stessi anni della crisi finanziaria.
Le sorprese che la ricerca fa emergere sono molteplici. “L’elaborazione patristica dell’«economia della salvezza»” è una – in una con la sorprendente rilettura di tanti testi altrimenti noti. O “il paradigma (monastico) del commercio salvifico tra Dio e l’uomo”. E “l’ascetismo come tecnica funzionale al potere ad esso soggiacente”, o “piano di salvezza, un ordinamento divino della storia a cui uniformarsi”. Perché “il poter fare a meno, di cui si nutre la vita ascetica e da cui emerge il «valore» delle cose, è all’origine del discorso economico occidentale”. Ma l’esito apocalittico non è scontato.
L’accumulazione attraverso lo spreco, o lusso, il “godimento e consumo” di Stimilli, ha un pedigree consolidato. Ripresa da Sombart e von Mises, è uno dei filoni del Settecento, di cui “La favola delle api” di Mandeville è il riferimento, e non lasciò indifferente Marx. È anche l’etica cristiana preriformata, e della Riforma cattolica. La novella “Il pranzo di Babette” di Karen Blixen trae dal contrasto tra la dépense e il thrift – la rinuncia, l’ “ascetismo intramoderno” di M.Weber – il suo singolare fascino. Lo stesso Weber della Riforma rivaluta il pietismo, l’anima più vicina al cristianesimo romano. Sul presupposto – che Sombart chiarirà – che la continenza avvilisce il capitale, di cui è motore il profitto. Benché la Riforma non c’entri, neppure in forma pietista: “Dal puritanesimo il capitalismo, dal pietismo il socialismo”, Spengler potrà dire, giustamente opponendo il pietista all’individualista. Mentre il capitalista feroce è puritano, io e il mio Dio – l’ex vichingo di Spengler, il predone del mare (che sapeva però contare: Roberto il Diavolo, il duca normanno padre di Guglielmo il Conquistatore, ebbe una Corte dei conti, che ragionava in termini di cheque, conto, quittance e record, controllo di gestione).
Stimilli sembra dare, all’inizio della sua ricerca, una logica distruttiva all’economia dell’ascesi cristiana che è la sua scoperta. Oggi che, dice, “persino gli interessi personali, pure massicciamente presenti, sembrano perdere di efficacia per una spiegazione del fenomeno di fronte all’evidenza della sua generale insensatezza”. Lo sconquasso indubbiamente è forte. Ma è il terzo in quarant’anni, dopo la “fine del capitalismo” per lo shock petrolifero del 1973, e la fine del socialismo (la “fine della storia”) con la caduta del Muro nel 1989. Dentro una rete composita e resistente degli interessi costituiti per il controllo della contemporaneità, sulla base del club di Roma: la Business Roundtable a Washington, che rifornisce di idee il governo americano, a New York la Trilaterale dei Rockefeller, i padroni della Chase Manhattan, la banca del petrolio, diretta da Zbigniew Brzezinski, il kissinger democratico che abbatterà il sovietismo, l’Aspen Institute, il club Bilderberg. Il rapporto preliminare alla conferenza Trilaterale di Tokyo il 23 ottobre 1974 è esplicito: “Più un sistema è liberale, più è esposto a minacce intestine… La vulnerabilità dei sistemi democratici non proviene da minacce esterne, benché queste siano reali, né dalla sovversione interna, di destra o sinistra, benché questi due rischi possano sussistere, ma dalla dinamica interna della democrazia stessa”.
Mentre non si valuta, e più dai nuovi assertori dei limiti del capitalismo, che meglio avrebbero dovuto vedere e capire, la portata radicale della globalizzazione. Che reimmette nella storia i cinque sesti dell’umanità, e relega al centro della “zona delle tempeste” l’Europa – un’Europa peraltro singolarmente inetta. Stimilli stessa fa combaciare le due moralità, giacché rileva in partenza, pur non spiegandola, la simultaneità, se non la commistione, tra il consumismo e l’ascesi.

Elettra Stimilli, Il debito del vivente. Ascesi e capitalismo, Quodlibet, pp. 291 €18

nota: un pezzo del 2011 ma sempre valido.

Featured image, il principe Bernhard van Lippe-Biesterfeld nel 1942, uno dei primi “contattati” per conferenze del Gruppo Bilderberg.

 


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