Questo 2015 penso che verrà ricordato come l'anno dei biopic, perché a solo poco meno di un mese dall'inizio ne abbiamo la bellezza di quattro. In origine c'è stato American sniper di Eastwood, poi Big eyes di Tim Burton e The imitation game di Mortem Tyldum. Il quarto titolo è da vedersi in questo The theory of everything (per una volta un titolo italiano tradotto in maniera letterale) che, dopo cecchini, artistoidi truffatori e matematici schizzati, prende in analisi la vita del fisico spaziale Stephen Hawkings, che come molti ho avuto modo di conoscere da piccolo per uno sketch dei Simpson e da adolescente perché viene citato in quel piccolo cult che è Donnie Darko. Come ho già scritto da altre parti, però, non sono un grande amante dei film biografici e, a parte rarissime eccezioni, questo è un genere che non mi ha mai affascinato. Credo che per rendere un biopic artisticamente rilevante ci voglia il doppio dello sforzo perché di mezzo ci si mettono un sacco di fattori contrari, quali un sapere già come la storia andrà a finire - spoiler alert! - oltre che il doversi attenere a un sacco di spiegoni storici e sociologici che rendono certi ritmi davvero tagliati con l'accetta. In questo caso ho voluto vedermi il film perché mi serviva per prepararmi alla corsa agli Oscar di quest'anno, senza contare che il fatto che affrontasse un tema così ostico come la malattia mi faceva ben sperare.
Come ho scritto poco fa, si parla della vita dell'astrofisico Stephen Hawking e della malattia che lo colse ai tempi dell'università: l'atrofia muscolare progressiva. Ma anche sulla sua ricerca per scoprire l'equazione perfetta, quella in grado di spiegare l'origine dell'universo.
Credo di avere un cuore di pietra, o almeno, questo è ciò che l'internetto cerca di suggerirmi. Perché nel cercare informazioni su questo film non ho potuto fare a meno di imbattermi in molti pareri entusiastici, che lo dipingevano come un capolavoro moderno. Per fortuna poi al ballo si sono uniti i miei colleghi blogger che, chi più chi meno, hanno saputo consolarmi, facendomi vedere che non ero il solo ad essere rimasto abbastanza indifferente dopo la visione di questa robetta. Perché La teoria del tutto non è un bruttissimo film, ma ha una colpa ancora peggiore: quello di essere insulso. E per quanto una parte di me sia tentata di dargli una stella e mezzo, l'altra si vuole negare questo piacere, perché sarebbe come dargli troppa importanza, quando invece a malapena si merita l'attenzione di una recensione. Ed è inutile che veniate a dirmi come lo stesso Hawking sia rimasto commosso da questa pellicola, perché non me ne può fregare di meno. Il buon Stephen sarà sicuramente una delle menti più brillanti del nostro secolo, non lo metto in dubbio, ed ho assoluto rispetto per lui e quello che ha passato come persona, ma col mondo del cinema centra poco o nulla. Il suo parere, quindi, vale quanto una mia qualsiasi opinione sull'astrofisica. L'unica cosa salvabile del film è la prova dell'attore protagonista, Eddie Redmayne, che oltre ad essere davvero somigliante col vero Hawking riesce a immolarsi in un ruolo non semplice ed a trasmettere molteplice sensazioni anche quando gli è preclusa la mobilità fisica, riuscendo in un ruolo davvero tosto e che sembra gli stia aprendo la corsa agli Oscar di quest'anno - insieme a Benedict Cumberbatch per il film su Alan Turing, che guarda caso aveva già interpretato Hawking in un film per la tv inglese. Tutto il resto va avanti davvero stancamente, con un ritmo davvero soporifero, fiaccato da una regia che non riesce ad avere nessun tipo di mordente. E non sottovalutatelo come fattore perché, come dico sempre, la regia è l'aspetto fondamentale di un film, perché non conta tanto cosa ma come lo racconti. Nei biopic soprattutto, perché qui la faccenda si complica per una storia della quale quasi tutti sono già a conoscenza, quindi almeno si deve riuscire a stupire almeno con una qualche trovata della macchina da presa o con un ritmo accattivante. La colpa maggiore di questa pellicola infatti sta nel non riuscire ad avere una propria dimensione precisa, adottando stilemi da fiction televisiva della Rai e un proseguire davvero soporifero come pochi. Giuro, ho fatto davvero fatica a finirlo. Quindi perché tutto questo entusiasmo? Perché parla di un uomo malato e sofferente? Perché quest'uomo è vissuto davvero? Mi spiace ma, anche a costo di sembrare insensibile, dico che questo non basta. Non basta perché non è la tematica che rende un film, un libro o un fumetto bello, bensì il modo in cui viene raccontata. Questo fa di un narratore un bravo narratore. Hemingway è riuscito a rendere affascinante la storia di un pescatore e Dostojevskij quella di un giocatore dì'azzardo, quindi non ditemi che servono solo e unicamente dei grandi temi per ricreare dei capolavori. Questo film invece, con tutta la sua finta sofferenza, non scalfisce per nulla, in gran parte per colpa dell'inefficace regia di James Marsh che in alcuni punti mette la cinepresa a caso e si sofferma su scene che si potevano benissimo evitare, dilungando ulteriormente la durata. Finché c'è vita c'è speranza, dice il protagonista, ma finché c'è pellicola non sempre ci sono film, a quanto pare.
Ad essermi rimasta particolarmente impressa più che altro è la storia d'amore fra Stephen e Jane. E ironicamente mi viene da pensare che sarebbe stato meglio concentrarsi quasi su quella anziché su tutte le teorie annesse alla vita del fisico.Voto: ★★