La terra avvelenata de Il paese delle spose infelici – Mario Desiati

Creato il 06 maggio 2014 da Diletti Riletti @DilettieRiletti

Da qualche anno il Salento va molto di moda nel comparto turistico: dai trulli al griko, dal mare alla pizzica, si è venduto tutto il vendibile. Ma come sempre accade il battage pubblicitario crea disegni edulcorati e fasulli nell’immaginario di chi quel territorio non lo vive. Territorio meraviglioso dal punto di vista naturalistico, il triangolo salentino -il cui vertice rovesciato creato dalla punta estrema d’Italia si tende verso i poli roventi del petrolchimico di Brindisi e dell’Italsider di Taranto- è stato violato senza riguardi e senza sconti per decenni. Come in una terra dei fuochi imbavagliata dal mare e dal silenzio connivente, questa appendice avvelenata produce giovani famelici di vita e di sogni, impastati di polvere rossa e calce bianca, ricchi di potenzialità, tarpati alla nascita.

Da questa culla incoerente muovono i loro passi i protagonisti de Il paese delle spose infelici, luogo mitologico e reale dove le giovani donne cercano scampo alle miserie di un matrimonio non desiderato nella morte, lanciandosi con grazia e bellezza finali da una rupe. Al vuoto della vita subita e non voluta, al vuoto di futuro, si contrappongono il vuoto fisico e poi il nulla.

Ciascuno di noi poteva contare nel proprio albero genealogico una sposa infelice. Una zia, una bisnonna, un’ava con le stimmate dell’insoddisfazione. La depressione per reazione o ribellione ai destini di nozze e dunque di morte.

Nati a Martina Franca, con gli occhi rivolti al siderurgico di Taranto, Zazà e Veleno corrono dietro ai loro sogni e ad un pallone, pieno di promesse e speranze il primo, sua imitazione ammirata il secondo; quello che potrebbero essere e non saranno mai conosce lo stop definitivo quando entrambi subiscono il fallo a gamba tesa dell’amore, in una sola forma: Annalisa, sensuale, enigmatica, corrotta e corruttrice, “sempre in mezzo ai maschi e agli ultimi, i pazzi e gli ammalati”, immacolata sgualdrina in bilico tra maldicenza e maledizioni paesane.

Invischiati in un’aria addensata e velenosa, Zazà, Veleno e Annalisa, dopo aver conosciuto la luce miracolosa dell’adolescenza e delle speranze, si avviano lentamente verso il nulla: l’uno dopo l’altro scoprono le proprie ferite, le proprie incapacità, in un’Italia da operetta dove invece tutto pare possibile, mentre Giancarlo Cito regala brevi sogni di stagnola e trasmissioni spinte ai suoi concittadini, imitando imprese di ben altra portata e longevità dei politici del Nord.

Ritornando verso il passato, il Francesco Rasoschi un tempo noto come Veleno riscopre e pare finalmente comprendere omissioni, colpe, segreti: accarezza con gli occhi della lontananza le figure un tempo care, e le accoglie definitivamente come parte di sé, scoprendo amore e poesia e luce dove sembravano essere solo corruzione e desolazione.

Desiati ha qui un maniera di raccontare contemporaneamente semplice e complessa, tessuta di quella semplicità della poesia quando è alta, di quella complessità di cui sono intrecciati i sentimenti più profondi. La figura di Annalisa, apparentemente sfondo, in realtà motore e protagonista, è resa con realismo fotografico nelle descrizioni, ma si abbiglia di surrealismo favolistico nei momenti di perdizione assoluta. Come se l’autore volesse comunque perdonarle ogni gesto, ogni scalino della sua discesa agli inferi, ammantandoli di un sguardo ancora –per sempre- innamorato.

La sposa (si scoprirà poi di chi) più infelice di tutte, sfuggendo alle maglie della vita, apre ali silenziose verso la dissoluzione ultima con una grazia sublime.


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