Beck, sociologo tedesco ora alla London School of Economics, è critico della Germania merkeliana, ma fino a un certo punto. Carl-Schmittiano alle origini, fondandosi sullo stato d’emergenza come rivelatore dell’Autorità, del potere, lo risolve non in senso leaderistico, elitistico, ma dell’assunzione generalizzata della responsabilità, di “più” democrazia. Ed è più ottimista che pessimista. La sua “società del rischio”, il paradigma nel quale inquadra la nuova modernità, e in essa specialmente l’Europa a cavaliere del Duemila, vede la solidarietà prevalere sullo scontro. Per egoismo – “l’attesa delle catastrofi globali… è una delle grandi forme di mobilitazione”. E anche, se non altro, in forma di comunicazione o rappresentazione: di preoccupazione condivisa, se non univoca.
L’indagine di Beck è specialmente preziosa dove individua i momenti di frattura. Il Bundestag che in buona coscienza “decide sul destino della Grecia”, per poi contestare l’unione bancaria in quanto cessione di sovranità. O il vezzo molto tedesco di giuristizzare il politico, a nessun fine se non lasciare libero il manovratore – le tipiche discussioni sul niente mentre il Titanic impatta. La frattura (il fronte) è tra paesi euro e pesi Ue non euro. Poi c’è un fronte interno all’euro, fra “il potere dell’euro-nazionalismo tedesco” e gli altri, Italia e Spagna in primo luogo – i paesi dove l’opinione qualificata è più euro entusiasta, nota Beck. Una forma di feudalesimo – “nel feudalesimo solo i nobili avevano diritto di voto. Stiamo assistendo a una riedizione in breve di simili privilegi?”
Fallisce con l’euro l’Europa tedesca
L’Europa di questi anni è un’anticipazione di fatto dell’Europa a due velocità, un’idea tedesca, su cui la Germania insiste da trent’anni ormai, anche se più volte accantonata come non viabile. Tra l’altro, contraria ai due presupposti, anch’essi tedeschi, dell’euro: tedesco è il sistema monetario dell’euro, tedesca, modellata sulla Bundesbank, la Bce. Il fallimento della Ue di Maastricht è il fallimento dell’Europa tedesca.
È l’eterogenesi dei fini della storia, o legge storica delle conseguenze non volute? No, è l’effetto di una politica deliberata. Merkel non viene presa sul serio, e non si capisce perché. Anche Beck, che per essa conia il Merckiavellismo, ne fa una rappresentazione diminutiva. Nel suo caso un altro esito bizzarramente contraddittorio (sarà la contraddizione il modo d’essere tedesco?): Beck rimprovera alla Merkel un atteggiamento politico diminutivo, vago, di chi tira il colpo e nasconde la mano, e poi la tratta alla stessa maniera, una provincialotta lì per caso. No: Angela Merkel è quella che ha imposto la recessione all’Europa, Germania esclusa con i suoi satelliti, e all’Italia la peggiore della sua storia. Non per caso, non per errore: la recessione è stata letteralmente imposta da Merkel a Napolitano e Monti, e da Monti all’Italia.
Il saggio si propone come un manifesto per l’Europa. L’ennesimo, la Gerrmania ne è prolifica. Habermas ne ha fatto un altro paio, lo stesso Beck ne aveva già fatto uno con Cohn Bendit. Altri nomi di minore risonanza vi si producono ogni poche settimane. Per rispondere a una domanda che non si pongono: perché l’“Europa tedesca” suscita diffidenza, dopo mezzo secolo di mea culpa. Beck se la pone ma non dà la risposta. La risposta è nella rilettura dell’ultimo Reich, il Terzo. Che si lascia, a questo punto della storia solo per comodità, schiacciato sull’ultimo Hitler, dell’abominio e della guerra perduta. Mentre fino al 1942 fu una serie di successi, economici, politici, sportivi, sì, militari. E perfino numinoso. Popolare, popolarissimo, anche fuori tutti invidiavano i tedeschi, Stalin compreso, anche gli inglesi fino all’alleanza di Hitler con Stalin.
Ulrich Beck, Europa tedesca, Laterza, pp. XVI + 90 € 12
Featured image, cover.