Una domanda a cui non so dare risposta, ovvero tutti gli uomini camminano con la testa girata all’indietro.
Anche all’inizio di questo nuovo anno, il 2014, mi sono sentito rivolgere la solita domanda: <<Perché vai avanti a lavorare?>> In realtà, da alcuni anni, questa domanda me la rivolgono in molti.
Tutte le volte che ho provato a rispondere in modo semplice, magari anche variando gli “ingredienti” del piatto principale, per cercare di essere brillante, mi sono sempre accorto che, ben presto, il mio interlocutore aveva perso interesse alla mia risposta e sviava il discorso su altri argomenti, lo sport, il clima, i viaggi, la politica, le vacanze. Evidentemente questa risposta non la so proprio dare.
Quindi ho sempre finito per restare miseramente in silenzio, mentre altri temi invadevano l’arena dei dialoghi.
Senza volerlo, mi sono ritrovato a guardare indietro, a rivedere la mia vita. Ho cominciato la mia attività lavorativa come ingegnere progettista nell’azienda creata da mio padre. Mi ero appena laureato al Politecnico di Milano e mi sentivo forte come un leone. Erano gli anni dello sviluppo, del miracolo economico italiano e la competizione nazionale era molto dura: per sostenerla bisognava continuare ad acculturarsi, innovare i prodotti e correre veloci. Poi è arrivato il 1969, gli anni della contestazione, una lunga crisi economica e, prima che ce ne rendessimo conto, erano arrivati gli anni di piombo, che sono durati molto a lungo, ben oltre l’uccisione di Aldo Moro. Per sopravvivere bisognava anzitutto rinnovare il modo di approcciare il mondo del lavoro, bisognava cambiare il modo di produrre, aggiornare i prodotti ed allargarsi su nuovi mercati internazionali. La competizione cresceva. Per i “piccoli” la vita era dura: vorrei ricordare una cosa per tutte. Per viaggiare all’estero, a caccia di lavoro, serviva valuta estera e bisognava chiederne un’assegnazione alla propria banca, che veniva poi autorizzata dalla Banca d’Italia. Funzionava più o meno così. Domanda: <<Perché richiedete valuta estera?>> Risposta: <<Per promuovere con viaggi all’estero le nostre esportazioni!>>
Spiegazione del funzionario: <<L’assegnazione di valuta viene concessa solo in proporzione a quanto già esportate.>>
Timida replica: <<In verità esportiamo poco ed è proprio per questo che ne abbiamo bisogno...>> Insomma dialoghi alla “Fantozzi”, cui seguivano erogazioni di valuta con il contagocce. “Quindi se quest’anno andiamo in sud America, in India andremo solo l’anno prossimo.”
Oggi esportiamo il 99% della nostra produzione, come ci siamo riusciti, ancora non so bene come spiegarlo. In quei terribili anni, molte aziende nazionali morivano, ma intanto molti competitori internazionali erano nati e crescevano.
A metà degli anni 70 il mercato era diventato globale. Quando stavo finendo il liceo, la popolazione mondiale era circa 1,8 miliardi di persone, ma al tavolo dell’economia ne erano seduti meno di un terzo. Nel 1976 la popolazione aveva superato i 4 miliardi, ma il numero dei commensali era aumentato in modo più che proporzionale.
Per sopravvivere bisognava innovare e correre veloci. Un’azienda è un corpo vivo: vive dei suoi uomini, del suo know-how e delle sue attrezzature. I dipendenti vanno in pensione e devono essere sostituiti in corsa, perché le nuove leve devono essere preparate ed istruite. Innovare i prodotti ed il modo di produrre sono due facce della stessa medaglia, quindi i reparti di produzione, con il passare del tempo, devono mutare e trasformarsi, ma il tutto deve avvenire mentre si continua a produrre, mese dopo mese, perché mese dopo mese bisogna continuare a fatturare, a pagare i dipendenti e le materie prime. Solo pochi “unti del signore” sono in grado di farlo mettendo uno stabilimento in stand-by e gli operai in cassa integrazione per quanto tempo basta. I “piccoli” no, questo non possono proprio farlo.
Poi gli anni di piombo erano finiti: adesso era il periodo di Vodka Cola, USA ed URSS amoreggiavano, ma dopo un’altra crisi economica, rapidamente era arrivato il crollo del “muro di Berlino” con un nuovo giro di walzer. Ora sì che il mercato era veramente globale!
Forse finalmente si poteva esportare in ogni paese senza restrizioni, ma ben più rapidamente di quanto riuscivamo a farlo noi, erano i paesi emergenti che lo facevano. Altri nostri competitori europei soccombevano, ma alcuni prima di cessare l’attività avevano stretto rapporti di join venture con aziende cinesi che presto sarebbero diventati i nuovi competitori globali. Poi sono arrivati gli anni 2000 e la moneta unica: niente più “lirette” adatte per la ciclica svalutazione competitiva, ma una moneta solida, l’euro. Tanto solida che ormai vale il trenta per cento in più del dollaro.
Come si può ancora esportare? Di nuovo per sopravvivere bisogna innovare, acculturarsi, migliorare il prodotto ed il modo di produrre, in una parola essere migliori dei nostri competitori. In conclusione mi sembra che la ricetta non sia mai cambiata, forse non è cambiata da quando mio padre, per sopravvivere alla guerra, invece di produrre apparecchi di risparmio energetico, era costretto a produrre stufe a segatura e riparare carri ferroviari mitragliati, cannibalizzandone altri: mediamente ogni tre se ne ricostruiva uno. In quel tempo ormai lontano, l’acciaio era contingentato e per ottenerlo bisognava farne richiesta scritta al ministero dell’industria, ma anche firmando con la parola “vincere”, invece di usare la dicitura borghese, “distinti saluti”, a quel tempo bandita, i “piccoli” non ottenevano mai nulla.
Forse la spiegazione del disinteresse di chi mi aveva posto la domanda, stava proprio nel fatto che tutti hanno la testa girata all’indietro, ma nessuno vuole ammetterlo. Ricordarsi come eravamo, forse, non piace neppure troppo. Meglio limitarsi al lamento, invocare i propri diritti, fare una vacanza, magari a Sharm-El-Sheik, senza pensare a cosa accade al Cairo.
Guardare in avanti, comporterebbe vedere uno stuolo di giovani senza lavoro, un’Europa Unita che stenta a decollare e le mille altre cose che tutti dovremmo fare, partendo dal basso, ognuno nel proprio ruolo.
<<Tu invece guardi in avanti?>> mi chiederebbe, a questo punto con una punta di astio nella voce, un lettore che avesse pazientemente letto queste righe. Ecco in verità, nel buio della notte, mi capita abbastanza spesso di guardare in avanti, ma finisco sempre per vedere qualcuno che mi attende in fondo alla strada, là dove la strada finisce.
Ma che vita sarebbe arrendersi a quest’attesa? Cerco di riprendere sonno, magari scrivo qualcosa e poi, la mattina successiva, cerco di ricominciare il combattimento, ma per trovare le armi adatte a farlo, cammino anch’io con la testa girata all’indietro.
Forse è per questo che non riesco a dare la risposta giusta: anch’io, come tutti gli altri uomini, cammino con la testa rivolta all’indietro.
Franco Rizzi. 01-03-2014