Il 12 maggio 2014 al centro sociale Sandro Pertini a Castel Maggiore (Bologna), gli studenti di ogni ordine e grado, invitati dall’A.N.P.I. locale, alla presenza dell’assessore alla cultura Belinda Gottardi e di Giovanni Santunione, presidente del centro, ascoltano la testimonianza di Adelmo Franceschini, sopravvissuto alla deportazione in un campo di prigionia tedesco, ove rimase dall’ottobre del ’43 al maggio del ’45.
La scelta di Adelmo.
Aveva poco più di 18 anni Adelmo Franceschini, quando all’indomani dell’8 settembre del ’43 si ritrovò insieme ad altri 650.000 soldati italiani a dover scegliere se arruolarsi nelle milizie della Repubblica Sociale di Salò o finire internato in un campo di prigionia tedesco.
Abbandonati dagli ufficiali fuggiti la notte stessa in cui seppero che Mussolini era stato liberato dai tedeschi al campo del Gran Sasso e collocato a Salò, molti di quei nostri soldati già l’indomani furono rastrellati dalle caserme italiane ad opera dei militari tedeschi.
Erano in venticinque in casa quando Adelmo era partito militare, servivano braccia per lavorare i campi e lui che apparteneva ad una famiglia come tante senza un preciso orientamento politico
(“non eravamo né fascisti, né antifascisti”)… sostiene che fu semplice per gli italiani di allora trarre beneficio da una politica che garantiva un piatto di minestra e l’istruzione a tutti. Tra le materie scolastiche si studiava “cultura fascista” e lui da bambino aveva sempre avuto il voto più alto: lodevole!
Però dopo il rastrellamento in quella caserma di Modena dove prestava servizio militare, Adelmo si rese conto che l’educazione all’obbedienza aveva danneggiato l’Italia, perché non aveva reso il popolo responsabile delle proprie scelte, ma vittima di un indottrinamento che faceva il gioco del più forte. Adelmo si rifiutò di servire il più forte, disse no a quel potere che aveva imposto anni di sudditanza alla sua famiglia e a tanti braccianti, sfruttati da podestà e signorotti scelti dal fascio per amministrare il contado italiano.
Ha raccontato della raccolta prigionieri effettuata alla stazione di Modena e di un campo adiacente in cui furono custoditi per qualche giorno, prima che fosse loro prospettata la sorte che li attendeva: tornare a combattere coi tedeschi per riscattare l’onore dell’Italia tradito da Badoglio e da Vittorio Emanuele III arruolandosi dunque nell’esercito repubblichino o andare incontro alla morte in un campo di concentramento.
Così a 19 anni scelse da che parte stare.
Il 4 ottobre del 1943 Adelmo e i suoi compagni furono caricati come bestie, in un treno merci, 60 soldati per vagone; partirono per un viaggio di nove notti e nove giorni alla volta di un campo di prigionia situato al confine tra Germania e Polonia.
A quasi 90 anni Adelmo non ha ancora dimenticato il rumore dei lucchetti con cui blindarono il vagone dall’esterno, gli odori nauseabondi e l’umiliazione del sopperire ai bisogni fisiologici in una valigia a ciò adibita.
Quando giunsero a destinazione e aprirono i vagoni molti svennero, poi furono denudati e costretti alle docce collettive, accolti a randellate al grido di “abbasso Badoglio”. Furono privati dei loro averi e condotti al campo con l’unica divisa che avevano addosso e che rimase quella per oltre 24 mesi. Ma il peggio doveva ancora arrivare. Gli fu sottratta l’identità.
Dall’ingresso al campo Adelmo divenne il numero 46737.
Le prime botte le prendevi se non rispondevi perché non riconoscevi il tuo numero enunciato in tedesco. A seguire c’era la fila per il tè,“acqua tinta”-dice Adelmo-, con una ciotola di latta tra le mani, dopodiché venivano condotti in fabbrica, un posto sperduto nella foresta che richiedeva circa 4km di marcia, dove, a loro insaputa, costruivano missili, gli stessi che i Tedeschi usarono per bombardare Londra.
Il sole lo vedevano solo di domenica, quando la fabbrica era chiusa. A mezzogiorno in fabbrica potevano bere, senza mai uscire, un mestolo di acqua in cui avevano bollito delle patate e rientravano nella baracca verso le otto di sera, dove per cena li attendeva qualche cucchiaio di purè o un’altra brodaglia e solo una volta alla settimana lo spezzatino in scatola, di dubbia qualità.
Adelmo pesava all’epoca 35kg e tra i suoi sogni ricorrenti c’era l’impasto di farina di mais che la sua mamma dava ai maiali.
Al campo avevano diritto a due etti di pane alla settimana. Adelmo ricorda che nella sua baracca erano in 16 ed egli aveva stabilito che ciascun prigioniero aveva un giorno a testa in cui poteva ripulire il tegame col cucchiaio. Nella sua baracca era l’addetto alla distribuzione del cibo e per evitare dissapori che sarebbero sfociati in rissa, aveva costruito con due pezzi di legno e uno spago, una piccola bilancia artigianale. Una simile è visibile ancor oggi al Museo della Deportazione di Carpi.
Un bel giorno, nel settembre del 45, furono rimpatriati in Italia e fortunatamente Adelmo potè raggiungere e ritrovare la sua famiglia. Questa deportazione militare non viene ricordata con un giorno ad hoc, ma ha avuto un peso importantissimo per la storia italiana. Assieme ai miei studenti mi son chiesta: cosa sarebbe successo se quei 650 mila soldati fossero andati a ingrossare le fila dei prevaricatori?
Ci sarebbe stata comunque la resistenza – ci ha risposto Adelmo.
L’Italia era in fermento, dopo vent’anni di angherie e prevaricazioni nacque nei giovani una coscienza civile che porterà al paesela Repubblicaela Costituzione. Ma cosa significa oggi essere partigiani?
Ci risponde Flavio Capelli, presidente dell’A.N.P.I. locale quando ci dice che anche una singola scelta può fare la differenza, dunque anche oggi ciascuno di noi può scegliere da che parte stare.
Adelmo parla ai giovani contestualizzando la sua esperienza ed esprime la sua preoccupazione perché se ai suoi tempi bastava una camicia nera o una divisa per identificare la dittatura e la forza, oggi è più difficile per i nostri ragazzi riconoscere i modelli sbagliati e dire no al bullismo e alla prepotenza. Infine ci lascia una testimonianza di dolore, mai di odio.
Prova ne fu che quand’erano ospiti dei sovietici divisero il pane con un gruppo di bambini tedeschi affamati e scalzi. “Quei bambini, quelle donne non avevano colpa, ed anche quei soldati tedeschi erano vittime come noi”.
Conclude col sorriso quando afferma - “la mia storia può insegnare a non perdere mai la speranza. Non potevamo non cantargli “Oh bella ciao”.
Grazie Adelmo.
Writteb by Claudia Piccinno