La testimonianza di una vita strappata dall’eutanasia

Creato il 18 dicembre 2013 da Uccronline

Un articolo pubblicato qualche settimana fa sul sito del settimanale Tempi riporta la storia straordinaria di Angèle Lieby, un’operaia francese che il 13 luglio 2009 è caduta in uno stato vegetativo.

Tutto è cominciato con una forte emicrania ed un consulto d’emergenza presso l’ospedale di Strasburgo, seguiti repentinamente da disturbi della parola, affanno e perdita di conoscenza. A questo punto Angèle viene immediatamente ricoverata, ma i medici la danno per spacciata: il coma in cui si trova, dicono, non concede speranze di remissione.

Come si legge nel libro pubblicato grazie alla collaborazione del giornalista Hervé de Chalendar (Angèle Lieby, Una lacrima mi ha salvato; edizioni San Paolo), Angèle è conscia di tutto: sepolta all’interno di un corpo incapace di ogni minimo movimento, la signora Lieby conserva solo il senso dell’udito e, lentamente, intuisce di essere attaccata a una macchina che la tiene in vita.

Ma l’incubo non è finito. Dopo quattro giorni, infatti, il medico che la tiene in osservazione spiega al marito che non c’è più nulla da fare: l’unica soluzione è di concederle una morte dignitosa staccando la spina. Angèle vorrebbe urlare di essere viva, ma non riesce a lanciare alcun segnale, anche il più piccolo, della sua reale condizione. Grazie a Dio il marito rifiuta in maniera categorica i consigli del medico ed il calvario prosegue, non senza altre pressioni da parte dello staff ospedaliero, per altri otto giorni.

Arriviamo quindi al 25 luglio, anniversario di matrimonio di Angèle. Sua figlia Cathy entra in camera e le confida di aspettare il terzo figlio e che sarebbe molto contenta se la nonna potesse vederlo. A questo punto accade l’imprevedibile: dagli occhi di Angèle sgorga una lacrima e, come se non bastasse, poco dopo la famiglia si accorgerà di un minuscolo movimento di un mignolo. C’è ormai poco da discutere, Angéle è viva. Da quel giorno per Angèle inizierà un lungo percorso di rieducazione alla vita che, con piccoli ma costanti progressi, la riporterà in meno di un anno alla guarigione.

Una diagnosi più approfondita rivelerà che la signora Lieby aveva contratto l’encefalite troncoencefalica di Bickerstaff, una rara condizione neurologica ad eziologia infettiva. Nel suo libro Angèle punta il dito contro una certa classe medica che tende a considerare il paziente in stato di coma come un “vegetale” piuttosto che un “essere umano”.

Se prima del 13 luglio 2009 Angèle avesse firmato un testamento biologico, con ogni probabilità quella lacrima non l’avrebbe scagionata. Il tema del “fine vita” è troppo spesso argomento di dibattiti dettati dal più becero sentimentalismo, piuttosto che dal rigore della scienza e dal rispetto dell’etica. La strumentalizzazione mediatica di alcuni drammi che coinvolgono intere famiglie non fa altro che spostare la questione lontano dal suo fulcro reale: cosa si conosce della vita?

E mentre i salotti televisivi si riempiono di voci e dalle aule di tribunale si levano, apparentemente unanimi, i cori di una popolazione che grida al “rispetto della volontà altrui”, nelle corsie d’ospedale, tra i ricoverati per appendicectomia, gli anziani scompensati ed i malati terminali, grida il silenzio di quelle anime vive intrappolate in corpi che sembrano non rispondere più.

Filippo Chelli


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