C’è chi sostiene che la guerra in Est Ucraina non esista, che sia un gesto strategico dei media sponsorizzati dalla politica. C’è chi parla di una guerra silenziosa, che quasi stenta a mietere vittime. La guerra in Ucraina dell’Est esiste. Esiste al pari dell’aeroporto di Donetsk assaltato nel gennaio di quest’anno. Oggi l’aeroporto di Donetsk è un aeroporto fantasma. È il relitto di una guerra che continua tuttora, che destabilizza quotidianamente un’economia già debole e incerta e spesso cristallizza ferite e fratture vecchie di secoli. “La guerra c’è stata e c’è ancora” ci racconta una donna, che incontriamo seduta su una panchina in un villaggio nei dintorni di Donetsk. Le case attorno sono tutte più o meno colpite. Alcune giacciono sventrate, col tetto ricaduto su di sé. “Su quella casa è caduto un colpo di mortaio in piena notte” ci indica la donna, mentre fa segno con la mano di come la guerra coi russi sia una pagina buia di storia per il Donbass. Racconta poi di come la tensione tra filorussi e governativi filo-Kiev sia una realtà che travalica i confini propri della politica internazionale. Non si sente di affermare perentoriamente che la situazione attuale derivi da una frattura etnica, ma sottolinea di come la separazione tra Est ed Ovest ucraino non sia soltanto di tipo geografico.
Per raggiungere Donetsk sono costretto a viaggiare in direzione di Kharkiv. L’aeroporto della città orientale (Donetsk) è stato infatti raso al suolo sette mesi fa e oggi non è che un cumulo di macerie. Kharkiv dista dalla capitale ucraina 478 chilometri, un’ora circa di volo sopra i cieli dell’Ucraina. So che andrò nel cuore del conflitto, là dove ci si chiede ancora se la guerra esista o meno, se sia un disegno propagandistico dei media o un dato di fatto. Al mio fianco ho un’interprete locale, conosce bene la storia del suo Paese, gli scheletri nell’armadio e i fantasmi che ancora aleggiano sul Donbass e sul resto dell’Ucraina.
Giunti a Kharkiv e lasciato il “litak”, così come chiamano l’aereo gli ucraini, viaggiamo su strada in direzione di Donetsk. Quasi 300 chilometri di strade dissestate e strade compatte, lisce e perforate dall’artiglieria. La vegetazione è fitta. A tratti ci si accorge della steppa. Ci si abitua così all’idea di essere ormai alle porte della Russia sterminata e immensa. Non raggiungiamo il cuore del Donbass. Ci fermiamo a qualche chilometro da Donetsk. Ci addentriamo nei villaggi e scattiamo qualche fotografia per dimostrare come la guerra in queste terre non sia una creazione fantasiosa dei vertici di potere. La gente ci osserva con sospetto. A tratti non sembrano particolarmente avvezzi alla stampa, ai giornalisti, ai reporter. Altre volte, invece, pare che la nostra presenza sia per loro scomoda. Fuggono alla vista della macchina fotografica. Riusciamo, tuttavia, a fermare un ragazzo. Gli chiediamo cosa pensi della guerra. Subito vorrebbe negare l’esistenza del conflitto, ma non appena gli mostriamo alcuni fotogrammi in memoria, capisce che siamo sinceri e vogliamo conoscere qualcosa di più della tensione fra Russia e Ucraina. “Dovrebbero lasciare alla gente comune la libertà di scegliere da che parte stare” ci spiega, “In Donbass gli scontri fra esercito e separatisti sono all’ordine del giorno”. Gli chiediamo allora dei convogli armati che sembrano arrivare in territorio ucraino per volontà del Cremlino. A quel punto ci scosta da un lato la macchina fotografica e ci supplica di non fare altre domande. Afferma di non voler guai con le autorità. Di non volerne per sé, né per i suoi famigliari.
Intanto fotografiamo edifici distrutti, tra cui un palazzo che pare un albergo totalmente sventrato e coi vetri finiti in frantumi. Una scuola abbandonata con l’ultimo piano andato del tutto a fuoco. Si osservano ancora i segni dell’incendio. Una donna sui trent’anni ci viene incontro e ci racconta che quella era la vecchia scuola dei suoi figli. “È stata bombardata di sera, poco dopo l’orario di uscita” esclama, “Per colpa di questa guerra ho rischiato di perdere entrambi i miei figli”. Poi ci fa segno di sederci un momento su un asse di legno avvitato al muro perimetrale di una palazzina. Ci mostra così la foto di suo marito: un giovane biondo, coi capelli corti, la mascella squadrata e poca barba in viso. Nel racconto della donna c’è la rabbia di chi sa di dover badare da sola alla famiglia. Il marito è partito per la guerra, ma non appena le chiediamo da che parte stia, se tra i filorussi o i governativi, ci spiega di non poter rispondere. “Gli uomini di qui non lottano solo per la difesa della patria” afferma, “Lo fanno anche per i figli. Non possiamo lasciare un’Ucraina in queste condizioni alle nuove generazioni”.
© Podvalov per Wikipedia – Teatro dell’opera a Donetsk
È un Paese dal volto scavato. Compriamo l’acqua e il pane con una manciata di monete nel portafoglio. In alcuni quartieri sorgono qua e là dei banchetti arrangiati ai margini delle strade. Si vende di tutto e tutto per pochi spiccioli. I mercatali siedono sui gradini dei marciapiedi o su delle seggiole in legno. Si fa mercato là dove non si spara ancora o si è smesso da poco di sparare. Acquistiamo un po’ di frutta e verdura da una ragazza e intanto le strappiamo un’intervista. Le chiediamo subito quanto renda oggi fare il mercato in Donbass, dove sembra che la guerra silenziosa non voglia conoscere tregua. Ci spiega che si lavora ancora così, per tirar su qualcosa e sopravvivere. L’azienda del marito – ci spiega – ha chiuso i battenti dopo che il conflitto si è intensificato. Così si è trasferito a Kiev nel comparto delle industrie pesanti. Si vedono una volta al mese se i soldi lo permettono, altrimenti una volta ogni due. Hanno tre figli – ci racconta – e la più grande sta a casa a badare ai più piccoli. Anche lei non se la sente di confessarci da che parte stia, ma ci fa sapere che ha partecipato più volte alle manifestazioni di piazza. “Alcune case son state colpite dall’artiglieria” ci racconta, “ma nessuno ha più i soldi per ripararle. Così si vive coi muri rammendati come stoffa”.
Nel nostro viaggio in direzione di Donetsk spesso incontriamo a sbarrarci la strada i cavalli di frisia. Alcune volte c’è ad aspettarci la milizia armata, colpo in canna, che ci ordina di mostrare i documenti. Altre volte i cavalli di frisia sono stati abbandonati, proprio come all’ingresso di un quartiere industriale apparentemente abbandonato. Non incrociamo nessuno entrando. Soltanto ascoltiamo da lontano qualche colpo secco di artiglieria. Di voci umane non ce ne sono. Gli edifici hanno la ruggine e accumulate qua e là prendono polvere tonnellate di macerie. Ci chiediamo se il quartiere sia stato abbandonato prima o durante la guerra. Alcune strutture portano i segni dei bombardamenti, le ferite di questa guerra che i media hanno ribattezzato come “silenziosa”, sebbene non lo sia troppo.
Oltrepassiamo il quartiere industriale e finiamo in un villaggio residenziale che dista un paio di chilometri o poco più. I colpi dell’artiglieria persistono in lontananza, anche se a tratti si rendono più intensi e nitidi. Improvvisamente un colpo di mortaio esplode a qualche decina di metri da noi. Il tetto di un’abitazione viene centrato in pieno. Una fiammata decisa si alza e poi un fumo fitto e nero oscura l’orizzonte. Ci nascondiamo dietro un muro di cemento. Restiamo accucciati sperando che altri colpi di quel calibro non ci raggiungano. Abbiamo la conferma che la guerra esiste, che non è un’allucinazione o un mistero, che è fatta di carne e ossa e fa paura. Sentiamo delle urla. Non vediamo gente a terra. Non vediamo feriti, ma decine di persone che scappano in ogni dove in cerca di un rifugio. In lontananza scorgiamo la sagoma di un fotografo con la macchina da presa al collo. Abbiamo la conferma che questa terra – almeno – non è stata del tutto abbandonata a se stessa.