Premio Camera d’Or al Festival di Cannes 2015, La tierra y la sombra (Land and shade) del colombiano Cesare Augusto Acevedo è un film che sfida i confini del quadro filmico, la restrizione delle due dimensioni. Ma non lo fa ricorrendo al 3D, bensì comprendendo a pieno il potere e il potenziale del 2D, ponendo la macchina da presa in posizioni tali da farci quasi percepire lo sfondamento dello schermo.
La tierra y la sombra è un film claustrofobico sia a livello filmico (molte le sequenze che si svolgono in interni ombrosi) sia a livello contenutistico (c’è un giovane padre di famiglia moribondo, una famiglia che collassa, una vita invivibile). Un film al quale la regia di Acevedo concede poco respiro, con movimenti di macchina ridotti all’essenziale, a seguire per lo più con belle carrellate gli spostamenti dei personaggi. Non un respiro affannato né affannoso, ma certamente sotto il normale battito cardiaco.
La tierra y la sombra è un film di volti, corpi, sguardi, dotati di un’intensità rara e dolente, solcati e incisi da una fotografia che ne mette in luce tutta la sofferenza, la dignità, la bellezza, riecheggiando gli scatti di Sebastiao Salgado. Una fotografia che sorregge con forza tutto il film, abile ed espressiva sia nel confrontarsi con gli interni bui sia con gli esterni soleggiati, quadri realisti che (di)stillano umanità e immobilismo.
Pregevole la scena del nonno che cerca di riparare il gelato del nipotino dalla polvere sollevata dal solito autocarro di passaggio.
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