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La traduzione e la percezione di un mondo: vivere in un villaggio

Da Silviapare
In questi giorni sto traducendo un racconto ambientato in Cisgiordania, nel quale ricorre spesso l'espressione Arab village, e continuano a tornarmi in mente le parole dell'arabista Elisabetta Bartuli, la quale, in questo documentario, afferma:

“Io personalmente, quando traduco, penso che sto dando voce. E il più delle volte sto dando voce a chi normalmente non ce l’ha. [...] Se non si fa attenzione si fanno danni. E non parlo di danni letterari. Abbiamo rovinato un capolavoro: va be’, abbiamo rovinato un capolavoro. Ma non abbiamo rovinato solo un capolavoro: abbiamo rovinato la percezione di un mondo intero”.

Ed ecco cosa dice Elisabetta Bartuli sulla questione del "villaggio", qui:

"Con un vistoso calco dalla traduzione francese e inglese, è d'uso rendere il termine qarya (paese, agglomerato urbano, cittadina di piccole dimensioni...) con 'villaggio'. Ora, cosa intende il lettore italiano per villaggio, se non un insieme raffazzonato di tende o baracche senza alcuna organizzazione stabile? Riesce a comprendere che i 'villaggi' dell'Alto Atlante marocchino, ad esempio, sono nuclei urbani in senso compiuto e non provvisori stanziamenti di nomadi? Ancora: come può, il lettore italiano, visualizzarsi il disastro dell'esodo palestinese da 'villaggi' in cui, già negli anni Quaranta, centinaia e a volte migliaia di persone vivevano in strutture murarie che comprendevano, oltre alle case, luoghi di culto, uffici municipali, istituzioni scolastiche, posti atti alla socializzazione?"Qui sotto potete vedere un esempio di quello che in inglese viene definito Arab village. In italiano lo definireste "villaggio"?

La traduzione e la percezione di un mondo: vivere in un villaggio

General view of the Arab village of Bethany (al-Azariyeh). Foto da qui, didascalia originale


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