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La tragedia della Sepoltura e la concezione della morte nell’attività di Michelangelo

Creato il 06 marzo 2013 da Martinaframmartino

La tragedia della Sepoltura e la concezione della morte nell’attività di MichelangeloStavolta faccio la pigra, o almeno ci provo, riciclando un mio vecchio testo. Se non divago troppo magari mi rimane il tempo per iniziare il pezzo per domani, che almeno nelle intenzioni è un po’ più impegnativo. Tanto non lo conosce quasi nessuno, chi lo ha letto non sa che l’ho scritto io e certamente se ne è dimenticato.

Una ventina d’anni fa un’amica mi ha telefonato per dirmi che suo fratello doveva fare a casa un tema di storia dell’arte su Michelangelo. Lui ovviamente aveva chiesto il suo aiuto, visto che lei frequentava all’Università proprio Storia dell’Arte. Solo che lei era al lavoro e il tema serviva in giornata, così mi aveva telefonato per chiedermi qualche spunto visto che non aveva tempo e modo di fare ricerche personali. È finito che il tema l’ho scritto io. Abbiamo preso 7, con la professoressa che ha detto al ragazzo che era evidente che il testo fosse stato scritto non da lui ma da sua sorella. Sbagliato, ma giustamente lui non l’ha corretta…

Tema su Michelangelo Buonarroti dunque, vecchio di una ventina d’anni. Non sono un’esperta, anche se ho studiato Storia dell’Arte pure io e ho anche letto qualche libro su di lui. Fra l’altro se non lo conoscete vi consiglio la lettura di Michelangelo. La grande ombra o La passione dell’error mio. Il carteggio di Michelangelo. Lettere scelte 1532-1564 di Filippo Tuena, scrittore poco noto ma dal grande talento. Non sono però libri che si trovano facilmente visto che l’edizione tascabile del primo risale al 2008 e il secondo è del 2002: vanno ordinati in libreria, ma secondo me ne vale davvero la pena.

Il testo mi sembra comunque interessante per chi conosce poco l’artista e vuole dare uno sguardo alle sue opere. E visto che il 6 marzo del 1475 il grande artista moriva, questa è anche una scusa per ricordarlo.

 

La tragedia della Sepoltura e la concezione della morte nell’attività di Michelangelo

Nel marzo del 1503 Giulio II chiama a Roma il trentenne Michelangelo per commissionargli il proprio monumento funerario.È l’inizio di quella che l’artista di Caprese definirà “la tragedia della sepoltura” e che, attraverso alterne vicende, lo accompagnerà per quaranta anni della sua vita.

Michelangelo è già un artista famoso. Durante il suo primo soggiorno romano, fra il 1498 e il 1499, aveva scolpito per il cardinale francese Jean de Bilhères il gruppo marmoreo della Pietà, prima meditazione sul tema di Cristo morto. La Madonna che tiene in grembo il Figlio è giovane, come quando Lui era un bambino. Michelangelo era stato criticato per questo, ma forse la statua voleva essere una prefigurazione della Passione. Alla previsione della giovane madre si lega subito il rimpianto, e infatti il gesto della sua mano conferma che la previsione si è purtroppo avverata.

Tra il 1501 e il 1504 Michelangelo aveva eseguito il David, simbolo della giovane repubblica fiorentina, interessandosi non tanto all’azione dell’eroe biblico quanto alla tensione interiore che precede lo scatto del gesto.

La già notevole fama che gli aveva procurato quest’opera era stata successivamente ingigantita dal cartone preparatorio per l’affresco, mai eseguito, della Battaglia di Cascina, definito dal Cellini “la scuola del mondo”. Tema centrale dell’opera è il momento in cui i fiorentini, che credevano di essere al sicuro, vengono sorpresi dai pisani e, in una situazione disperata, trovano la forza di battersi e di vincere. Per il soldato, come per il cristiano, il momento della prova estrema giunge quando è meno preparato, ed è la stessa angoscia che può e deve divenire forza di riscatto. L’eroe qui non è colui che compie un’azione coraggiosa quanto colui che sconfigge le debolezze della carne affermando il proprio essere spirituale e si salva.

È dunque un artista affermato, e avviato lungo un personale e problematico cammino interiore alla ricerca del valore etico oltre che estetico della propria opera, quello che viene chiamato dall’autoritario ed energico Giulio II per realizzare l’opera più ambiziosa del momento.

Il primo progetto per la sepoltura prevede un organismo autonomo, sintesi di architettura e scultura, da collocarsi al centro della Basilica di San Pietro. Si tratta di un’impresa monumentale, articolata su tre ordini e per la quale era prevista la realizzazione di oltre quaranta statue che, secondo uno sviluppo ascensionale, dai Prigioni e dalle Virtù del basamento e attraverso le personificazioni della Vita attiva e contemplativa e le statue di Mosè e San Paolo, fino al passaggio dalla morte terrena alla vita eterna, interpreta l’ascesa dell’anima e la liberazione dalla schiavitù della carne.

Entro breve tempo, però, l’intero progetto viene accantonato dal papa, più interessato alla realizzazione della nuova basilica di San Pietro, e Michelangelo decide di allontanarsi da Roma. Quando si riappacifica con il pontefice esegue un ciclo di affreschi con Storie della Genesi sulla volta della Cappella Sistina, in cui campeggiano grandiose e tormentate figure umane che sembrano dibattersi nel disperato tentativo di sfuggire al destino che li attende e di elevare il proprio spirito. Michelangelo esegue gli affreschi praticamente da solo, rifiutando l’intervento di collaboratori. Ogni sua opera è la rielaborazione e il superamento delle esperienze precedenti, e il cammino di ricerca non può che essere personale.

Nel 1513 Michelangelo stipula con gli eredi di Giulio II un secondo contratto per la sepoltura, non più isolata ma destinata ad essere addossata ad una parete e sviluppata in senso prevalentemente verticale. L’artista esegue subito il Mosè e due figure di schiavi, avvinti da deboli legami ma profondamente uniti alla materia da cui emergono e nella quale, malgrado tutti i loro sforzi, restano imprigionati, ma è presto costretto ad interrompere il lavoro da Leone X.

Il nuovo pontefice gli commissiona prima la facciata per la Basilica di San Lorenzo a Firenze, altra sintesi di architettura e scultura mai realizzata, e poi una nuova sagrestia, sempre per San Lorenzo, in cui collocare le tombe di Lorenzo e Giuliano dei Medici. Nelle pareti, scandite dagli archi scuri e dalle cornici e dotate di un forte rilievo plastico, sono inseriti i ritratti idealizzati dei duchi che trionfano sul tempo, rappresentato dalle allegorie delle quattro parti del giorno. E in queste figure, precariamente distese sui coperchi ricurvi dei sarcofagi, ricompare il non-finito, a sottolineare l’ambiguità del tempo che domina il destino dell’uomo. La vita perenne e la pace possono essere trovate solo affidandosi alla misericordia divina, rappresentata dalla Vergine col Bambino verso la quale si rivolgono i duchi.

Nel 1516 e poi ancora nel 1532 il Buonarroti aveva stipulato per la sepoltura di Giulio II altri due contratti che ne riducevano ulteriormente le dimensioni e il numero delle sculture.

L’artista torna a Roma solo nel 1534, ma ormai la situazione è profondamente cambiata. Con il sacco di Roma era sparito definitivamente il sogno di una restaurazione classica della città, e la nuova commissione del Giudizio Universale si adatta perfettamente al clima d’incertezza tanto del mondo cattolico in lotta con la riforma protestante quanto dell’animo di Michelangelo che, fin dai tempi del Savonarola, avvertiva la profonda esigenza di una riforma interna della Chiesa.

La scena, grandiosa e terribile, ruota intorno al gesto deciso di Cristo giudice, che emerge isolato in un nimbo di luce. Intorno a Lui un’umanità sgomenta e impotente che può solo attendere la giustizia divina: tutti sono colpevoli e tutti possono essere salvati, e solo Dio ne conosce i motivi.

L’affresco è terminato nel 1541, l’anno successivo Michelangelo inizia gli affreschi della Cappella Paolina e firma l’ultimo contratto per la tomba di Giulio II, che sarà terminata tre anni più tardi e collocata nella chiesetta di San Pietro in Vincoli. Del primitivo progetto non resta quasi più nulla, l’originaria monumentalità è svanita e l’opera è dominata dalla possente figura di Mosè che sembra emergere con prepotente energia da una struttura per lui troppo angusta.

Gli affreschi della Cappella Paolina sono un ulteriore passo avanti verso l’essenzialità della rappresentazione, alla ricerca di un incontro diretto con Dio. Il paesaggio dietro le figure sparisce, e i personaggi, accomunati da un profondo senso di smarrimento, sembrano disporsi nello spazio senza un preciso ordine razionale.

Negli ultimi anni Michelangelo si dedica prevalentemente all’architettura che, priva della figura umana, non implica la mimesi o la pretesa di una serena comprensione della realtà.

Le sue ultime sculture sono una meditazione privata sul tema della Pietà, non più intesa come compianto ma come presentazione al mondo del corpo di Cristo morto. Nella Pietà Rondanini in particolare, cui Michelangelo ha lavorato quasi fino al giorno della sua morte, sparisce ogni ricerca di perfetta definizione anatomica delle figure, i cui volumi sembrano quasi negare la loro stessa consistenza fisica ed esprimere, nell’ambiguità della forma, l’incolmabile divario tra materia e spirito, drammatico specchio del suo tormento interiore.



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