Con la sua incredibile attualità non è difficile comprendere quindi come questa storia sia nell’immaginario collettivo LA TRAGEDIA per eccellenza ricca di sofferenza, vigliaccheria e avidità a tratti davvero cruda e cruenta. Si tendono trappole ai fratelli, si mente ai genitori, si strappano gli occhi a coloro che si temono e vincono per lo più i disonesti. Dovranno tutti toccare il fondo per infine vedere e comprendere, anche se sarà troppo tardi e rimarrà solo spazio per il dolore. Una parabola della vita che mai come oggi è insegnamento da gridare alla nostra società – aprite gli occhi sino a quando siete in tempo, usate giudizio, non assecondate brame di potere e notorietà – ma, probabilmente, se lo facessimo finiremmo come i personaggi di questa triste storia.
foto Irene Magherini
Il 2012 sta divenendo anno Shakespeariano. Questa volta ci siamo cimentati con una tragedia, anzi con LA tragedia di “Re Lear” e per l’occasione siamo tornati in un teatro già apprezzato in più occasioni durante questa stagione. Siamo all’Oscar e sul palco ci sono Maria Eugenia D’Aquino e Annig Raimondi, accompagnate da Francesco Paolo Cosenza, Antonio Rosti e Riccardo Magherini (nella duplice veste di regista e attore) che ci regalano una performance intensa in cui il tormento è acuito da un ritmo incalzante che rende la rappresentazione a tratti tanto oscura quanto avvincente.
Poco meno di due ore in cui veniamo trascinati nel gorgo di cecità e perdita della ragione in cui cadrà il vecchio re di Bretagna, grazie al supporto di voci fuori campo, cori, fasci di luce e mise di un efficace nero che acuiscono lo sconforto, l’inquietudine e la disperazione dei nostri personaggi. L’espressività delle due dame Maria Eugenia D’Aquino e Annig Raimondi, che vestono i panni delle perfide Goneril e Regan, e il fervore del povero Lear sono così contagiosi da farci sperare che il finale non sia come ce lo ricordavamo. Niente da fare…
Il Re, accecato prima dalla vanità e poi dalle menzogne, sarà sopraffatto da quella follia che lo libererà dalle sovrastrutture, dipanando infine la nebbia che gli impediva di vedere e discernere l’affetto sincero dall’opportunismo, la parola vera da quella falsa, il bene dal male, ma che non cambierà la sua sorte, troppo tardi! Nessun lieto fine quindi, solo la consapevolezza di dover ”accettare il peso di questo tempo triste: dire ciò che sentiamo e non ciò che conviene dire”.