La trappola dell’austerity mette in crisi anche il Portogallo

Creato il 07 agosto 2013 da Bloglobal @bloglobal_opi
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di Federica Castellana

Dopo anni di popolarità il mito dell’austerity comincia ormai a vacillare: la cieca fiducia nel rigore fiscale come cura per tutti i mali (leggi: per compiacere i creditori internazionali) non sembra infatti in grado di garantire ai Paesi in difficoltà né la ripresa né la stabilità necessarie e lo stesso FMI ha riconosciuto a gennaio di averne sottovalutato l’impatto recessivo. Eppure i seri limiti dell’austerità e il circolo vizioso che questa innesca erano piuttosto prevedibili: notoriamente i tagli alla spesa pubblica e l’aumento della tassazione comportano un calo della domanda e della produzione domestiche con effetti negativi sull’occupazione e sugli investimenti; tale recessione a sua volta riduce le entrate fiscali e incrementa le uscite in forma di sussidi di varia natura, traducendosi in un contesto generale di tensioni sia economiche che politico-sociali. A tal proposito, le vicende portoghesi delle ultime settimane sono state particolarmente interessanti in quanto si è trattato di una crisi tutta politica, avvenuta nei palazzi, ma scaturita da contrasti interni proprio sulla gestione della crisi economica nazionale.

Recessione economica - Anche in Portogallo il rimedio dell’austerity praticato nell’ultimo biennio non ha avuto nei fatti il successo sperato e la ripresa è ancora lontana. Nonostante l’aumento generalizzato delle tasse su redditi e consumi e i tagli a sanità, istruzione e retribuzioni statali, al momento il rapporto deficit/Pil si attesta al 10,6% trattenendo così Lisbona all’interno della procedura di infrazione dell’UE contro i disavanzi nazionali eccessivi (assieme a Spagna, Francia, Slovenia, Polonia, Paesi Bassi). Inoltre, nel primo quadrimestre del 2013 il Pil ha registrato una contrazione su base annua del 4% dovuta al crollo della domanda interna come pure degli investimenti e delle esportazioni (dati INE, Instituto Nacional de Estadística). Uno dei maggiori problemi del Paese resta tuttavia la disoccupazione, con il tasso generale che ha raggiunto il 17,7% (in aumento del 2,8% in confronto al 2012) e quello giovanile al 42,1% rispetto a una media del 24,4% tra i Paesi dell’area Euro (dati Eurostat, maggio 2013). In questa situazione la risposta dei mercati non si è fatta attendere: di recente i tassi di interesse sui titoli di stato portoghesi hanno toccato il 7%, superando anche la soglia che nel 2011, nel pieno della crisi dei debiti sovrani, costrinse Lisbona a negoziare con UE/BCE/FMI un pacchetto triennale di aiuti finanziari pari a 78 miliardi di euro, in cambio di un programma di riforme all’insegna dell’austerità. Programma consistente e controverso, bocciato dal parlamento portoghese e che ha portato alle dimissioni del Primo Ministro socialista José Sócrates e alle elezioni anticipate.

Crisi politica - La tornata elettorale del 5 giugno 2011 ha rinnovato per i prossimi quattro anni l’Assembleia da República, l’unico ramo del parlamento lusitano. Secondo i risultati delle urne, i 230 seggi della camera sono stati così assegnati ai maggiori partiti: 108 al PSD (socialdemocratici, di centrodestra) di Pedro Passos Coelho; 74 ai socialisti (PS) António José Seguro; 24 al Partido Popular (CDS-PP, più conservatori ed euroscettici) guidati da Paulo Portas. In mancanza della maggioranza assoluta, il PSD ha formato un esecutivo in alleanza con il CSD-PP, con Passos Coelho Primo Ministro e Portas al Ministero degli Esteri. È stato però nei primi giorni di luglio che si è raggiunta la massima tensione politica, con le forti pressioni dell’opposizione e dei sindacati (arrivati al quarto sciopero generale in due anni) contro le perduranti misure economiche restrittive e la crisi interna al governo: prima le dimissioni a sorpresa del Ministro delle Finanze Vítor Gaspar, indipendente, artefice dell’austerity portoghese ma deluso dai dati sulla performance effettiva del Paese; poi quelle di Portas, in disaccordo con la scelta di continuità di Passos Coelho che ha nominato come successore di Gaspar un’altra sostenitrice delle politiche di rigore, Maria Luís Albuquerque. I socialisti hanno subito chiesto il ritorno alle urne mentre i due partiti di maggioranza sono riusciti a trovare un primo accordo per continuare a governare, con Portas vice Primo Ministro nonché responsabile diretto dei rapporti con la Troika. Sono invece fallite in poco tempo le trattative per un ipotetico governo di unità nazionale con l’opposizione, la cui condizione imprescindibile era la completa rinegoziazione dei piani di bailout con UE e FMI verso un salvataggio più soft, allentando cioè le scadenze e i tassi di interesse dei prestiti. Dopo settimane movimentate, la crisi politica è rientrata definitivamente lo scorso 21 luglio con l’intervento del Presidente della Repubblica Anibal Cavaco Silva: in un discorso televisivo alla nazione, il Capo dello Stato ha infatti confermato il suo sostegno all’Esecutivo in carica fino alla scadenza naturale del mandato, escludendo così la possibilità di nuove elezioni e rassicurando la comunità internazionale sulla stabilità e governabilità del Portogallo. Messaggio captato immediatamente nelle piazze finanziarie.

Instabilità mediterranea - Il recentissimo caso portoghese si aggiunge a contesti nazionali altrettanto precari che caratterizzano oggi l’Eurozona mediterranea, dilaniata da recessione, scioperi, proteste e scandali politici. Dalla Grecia a Cipro passando per la Spagna (alle prese con le accuse di corruzione nel Partido Popular del Primo Ministro Rajoy) e l’Italia, dove il governo di larghe intese di Enrico Letta, fortemente voluto dal presidente Napolitano dopo il difficile risultato elettorale, sta già rivelando la sua fragilità su diversi temi economici, istituzionali e persino di politica estera.

Come ha evidenziato opportunamente l’Economist, la debolezza politica che sta accompagnando le economie mediterranee in crisi non è affatto una questione periferica e le sue ripercussioni sull’intero continente europeo non sono da sottovalutare, considerato anche l’elevato livello di integrazione ormai raggiunto. Soprattutto, una delle principali emergenze nel Mediterraneo è l’evidente insostenibilità politica e sociale degli enormi debiti pubblici, della disoccupazione giovanile (più del 20% dei ragazzi rientrano oggi nella categoria dei cosiddetti NEET, Not in Education Employment or Training, ovvero non studiano né lavorano né sono occupati in formazione/tirocini) e degli stessi interventi di austerity adottati dai vari Governi per sanare il dissesto dei bilanci pubblici e ottenere prestiti internazionali per la ristrutturazione economica-finanziaria. In mancanza di prospettive più lungimiranti che riescano a conciliare il rigore con la ripresa e la crescita, lo scenario attuale non è dei migliori e ha sempre più le sembianze di un vicolo cieco da cui non si sa bene come uscire: continuare a rinegoziare in nome del mantra dell’austerità oppure rischiare default a catena ed effetto contagio?

* Federica Castellana è Dottoressa in Scienze Politiche, Relazioni Internazionali e Studi Europei (Università di Bari)

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