ovvero: Riflessioni sparse su Boldrini, Barilla, bell hooks e Butler
Yoshitomo Nara
In Elogio del margine, bell hooks denuncia all’interno del discorso femminista una mancanza di considerazione per le donne nere. Tale critica è legittima e condivisibile ed è, a rovescio, un richiamo al riconoscimento del rischio che si corre a basare il discorso di liberazione e rivoluzione femminista sulla pratica di inclusione.
In questo senso mi viene in mente la teoria del genere di Judith Butler. A parte il fastidioso scollamento tra una teoria che vorrebbe essere il più inclusiva possibile e la sua prassi che risulta appannaggio solo di pochi privilegiati*, che cosa è tale teoria se non un’enorme sforzo di elaborazione di una teoria del genere dalle maglie talmente larghe da includere chiunque? Il fatto che la filosofa inizi la costruzione della suddetta teoria con il prendere in considerazione lo status delle persone intersessuali costituisce una prova di ciò.
Abbiamo veramente bisogno di una teoria che si basi sul concetto di inclusione? Inclusione prevede inevitabilmente qualcuno al di fuori e prevede che i soggetti inclusi (ma anche quelli esclusi) vengano identificati per mezzo di un ordine di classificazione pre-esistente. Non sarebbe più semplice elaborare l’idea di una libertà autentica radicale che permetta a ciascuna di essere ciò che vuole senza la necessità di etichettarsi, senza dover giungere ad incarnare uno stereotipo a causa dell’ansia di riconoscimento, di accettazione, di inclusione appunto? Enfasi tassonomica che non sortisce alcun effetto positivo dal punto di vista di rispetto e diritti.
Non sarebbe più efficace una libertà pensata in termini di libertà dai ruoli, dai generi, dalle etichette che non lo sforzo incessante di classificare chi si trova ancora al di fuori del cerchio che è inclusivo sì, ma anche classificante e, dunque, limitante?
Non mille generi, ma nessuno.
È vero che (ri)nominarsi è anche un modo di affermare la propria esistenza, ma allo stesso tempo tale atto di nominarsi è fortemente limitato dal nostro simbolico, la nostra esistenza è ridotta ad una concezione, ad un ruolo, che è spesso mero calco e approssimazione per difetto della complessità individuale di ciascun essere umano. Tale approssimazione non potrà mai essere autentica traduzione di noi stesse in parola. Penso alle dichiarazioni di Laura Boldrini e all’indignate reazioni contro di lei, che mi suggeriscono che, per “l’opinione pubblica” italiana, la donna trova la sua unica vera realizzazione nella gioia del servizio e della cura. Uno stereotipo certo ma che non pare sia stato minimamente intaccato dall’inclusione delle donne nella sfera pubblica avvenuta ormai da parecchio tempo.
C’è un sistema sociale, economico e culturale (e simbolico) che prevede che in base al colore, all’orientamento sessuale, al genere eccetera un individuo debba essere in un certo modo piuttosto che in un altro e debba occupare determinati spazi nella società.
Il caso Barilla e le dichiarazioni di Guido Barilla sono emblematiche perchè esempio, purtroppo, di un comune sentire: accettiamo, o meglio tolleriamo, le persone omosessuali, ma solo se rimangono nel loro spazio, uno spazio preferibilmente nascosto, chiuso, circoscritto e il più invisibile possibile. Possono mangiare la nostra pasta, ma non si sognino di desiderare una famiglia, dei figli eccetera; questo desiderio (e la sua rappresentazione) è appannaggio esclusivo di (sani?) individui eterosessuali. Senza contare che, con un’ulteriore dichiarazione (forse addirittura peggiore rispetto alla prima), Guido Barilla, a difesa delle sue affermazioni, fa notare che il suo scopo era quello di affermare la centralità della donna nella famiglia. Ecco l’esclusione nell’inclusione: le donne omosessuali non sono contemplate, sono e devono rimanere ancora più invisibili degli uomini omosessuali. Chi lo spiega a Guido che esistono le lesbiche?
Sembra che il problema sia di chi richiede l’inclusione e non di chi esclude, fondamentalmente perché l’inclusione non intacca il simbolico che continua, indisturbato, la sua azione escludente.
*L’idea del genere come atto performativo è accattivante, liberatoria ma squisitamente teorica. Se essa è valida come spiegazione non risulta valida come prassi. Per moltissimi esseri umani, il genere lungi dall’essere un atto performativo (che può essere scelto e liberamente messo in atto) è una gabbia che costringe a scelte forzate, a violenze e a schiavitù.