Il governo turco, conservatore e d’ispirazione islamica, è impegnato in un piano per il recupero e la preservazione del patrimonio storico non musulmano: secondo i dati ufficiali, diffusi qualche settimana fa dal vice-premier Bekir Bozdağ, dal 2002 sono state restaurate sessantanove tra chiese e sinagoghe, su tutto il territorio nazionale, con una spesa complessiva di circa diciotto milioni di lire turche (al cambio attuale, circa otto milioni di euro). Alcune sono state riaperte al culto dopo decenni di abbandono, mentre dieci edifici sono attualmente in fase di restauro e altri otto interventi sono già stati decisi. Una netta inversione di tendenza rispetto al passato recente, in cui hanno prevalso l’incuria e, a volte, la distruzione mirata per motivi ideologici. Una riappropriazione consapevole del passato ottomano, quando il rispetto della religione altrui – almeno fino alla fase terminale dell’Impero – era generalmente la regola.
Tra le chiese in fase di restauro, ben 4 sono ad Ani: con l’intervento diretto del World Monuments Fund, con il sostegno del ministero (turco) della cultura e del turismo, con il prossimo coinvolgimento – su sollecitazione dell’Icomos armeno – di esperti provenienti direttamente dall’Armenia.
Perché di tutto ciò non v’è traccia sulle agenzie di stampa italiane?
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