La vacanza della Signora L.

Da Bibolotty
Nemmeno la maga Rosa avrebbe previsto un incontro come quello, e sicuramente, se glielo avesse raccontato, non ci avrebbe creduto a un colpo di fulmine così. E poi, un segreto è un segreto, si disse la Signora L. mentre dava inizio alla toilette. Anche se in quel momento, e alla fine di quella giornata splendida, l’avrebbe urlata volentieri ai quattro venti e con tutto il fiato che aveva in corpo la propria felicità. Proprio da lì, dalla terrazza che affacciava sulla Promenade des anglais, avrebbe urlato volentieri a tutto il mondo il suo amore per il tizio tatuato e dal grosso attrezzo. Beh, forse non avrebbe usato proprio il termine “attrezzo”, che probabilmente nemmeno pensò, o censurò. Perché poi, anche se alla fine era esattamente di quel genere di relazione che si trattava, la Signora L. avrebbe usato un altro termine. Chessò... affare, o “coso”, pisello, uccello, forse, e soltanto se provocata si sarebbe anche azzardata ad ammettere che l’uomo aveva un grosso cazzo, almeno credo. Nemmeno nell’intimità aveva il coraggio di prenderne atto e di nominarlo, in realtà nemmeno aveva il coraggio di guardarlo così fuori misura che lei stessa si sentiva scoppiare, dalla felicità. Ed era da una settimana che, ogni volta che parlava col marito, la Signora L. doveva fare grossi sforzi per trattenersi dall’urlargli bello chiaro: uè, pirla, ma lo sai che te al posto del cazzo c’hai un fuscello? Così, censura dopo censura, alla fine di ogni conversazione triste e noiosa come la precedente e la successiva, fatta di monosillabi e raccomandazioni inutili, si sentiva spossata e triste. L’idea di passare il resto dei suoi giorni col Bepi (suo marito) e quei quattro idioti di amici con mogli al seguito, la rendeva incline a una già abituale bulimia per tutto ciò che conteneva zuccheri. Tanto li brucio!, disse esultante mentre allungava la mano verso il vassoio di crepes ancora calde.
Già le mancavano le lunghe galoppate gioiose cui l’inaspettata conquista la costringeva nella penombra dei pomeriggi afosi, mentre i turisti, dabbasso, camminavano frettolosi e ignari della passione che si consumava all’ultimo piano del lussuoso hotel. Pensava che sarebbe morta, forse, dopo quella separazione necessaria dall’amante, che non avrebbe più potuto presiedere alle riunioni del circolo femminile, né riprendere a produrre quelle orrende opere di decoupage e uncinetto che nessuno voleva e che fin lì l’avevano aiutata a superare la noia di una vita agiata e fin troppo comoda. Si vedeva già nei suoi pile preferiti, divorare pane e nutella e romanzi rosa, storie di donne bellissime che per tutta la vita non avevano fatto altro che arrendersi alle decisioni altrui. O peggio, del destino. E se fosse fuggita con lui?, la signora L. nascose quel pensiero pericoloso dietro un sorriso infantile poi, decise di rimuoverlo dandosi da fare con un elegante flacone di crema per il corpo ad assorbimento rapido –anticellulite e smagliature- e una maschera di alghe prodigiose e dal risultato sorprendente –così era scritto. Inforcati gli eleganti occhiali da lettura diede una scorsa al foglio illustrativo e scosse la testa. Chissà quando si sarebbe decisa a farsi dare una tiratina qua e là. Ormai in città lo avevano fatto tutte. Un breve soggiorno nella vicina Milano o a Zurigo, e sarebbe ritornata come nuova. Certo il Bepi non si sarebbe nemmeno opposto. D’altra parte i suoi sensi di colpa erano corposi quanto il suo portafogli. Ma la signora L., risoluta, pensò che no, che alla fine non le importava così tanto, e non se l’era certo cercata quella situazione stramba, che in realtà era anche il primo tradimento effettivo della sua lunga vita coniugale. Allora le parve di vederla proprio lì, che sbucava dalla spalliera della poltrona ottocento della suite, la testa pelata del Bepi. Perfino la sua risata arrochita dal fumo, riecheggiava e rimbalzava da una parete all’altra della lussuosa stanza, e soltanto per prenderla in giro. Ma erano persone civili. Lei e il Bepi “crapa pelata” erano due che non si facevano certo parlar dietro, due che a messa ci andavano tutte le domeniche e che facevano anche adozioni a distanza. Erano due che le tasse le pagavano -nonostante i viaggetti del marito nella vicina Svizzera. Ovvio, pensierini strani li aveva anche fatti, certo, e a quel pensiero rise la Signora L., rise così tanto e di gusto da lasciare che un seno, bianchissimo e ancora bello sodo, facesse capolino dalla vestaglia di seta nera, sobriamente bordata color cipria e morbidamente allacciata alla vita stretta, ancora giusta per vestire fasciata e di colori chiari.
Sono le rughe sul collo che mi fregano!, disse in un sussurro, passandoci sopra, con movimenti rapidi e forti delle dita, un costosissimo fluido “effetto supertensore” che pareva facesse miracoli. Scettica, mosse il viso, ancora ben coperto dalla maschera verde pistacchio, a destra e a sinistra. No, non era ancora il caso di passare sotto le mani di un chirurgo. Apprezzò gli zigomi che sostenevano, e le labbra sode e carnose, mai aggricciate attorno a una sigaretta. Gli occhi dal taglio orientale erano sicuramente il suo punto forte, erano di un colore non genericamente chiaro ma simile all’acquamarina. Era stato perciò che aveva deciso per la frangia scura dritta sugli occhi, un contrasto così particolare che non poteva non attrarre sguardi, proprio com’era successo quel mattino di una settimana prima, quando l’uomo, apparentemente assai più giovane dell’effettiva età anagrafica, aveva attaccato discorso con lei. Una banale scusa vale sempre per continuare a dirsi qualcosa, anzi, era proprio ciò che le ci voleva, parcheggiata lì per venti giorni –come di consueto-, mentre il marito si muoveva tra Montecarlo e Zurigo per affari. Ma anche solo per parlare, si era detta la Signora, anche solo per scambiarsi impressioni, per un semplice contatto umano, lei che volontariamente aveva scelto la completa solitudine piuttosto che le false relazioni dei social network, aveva pur il diritto di ridere un po’. L’inteneriva poi, il fatto che lui fosse più giovane, che la stesse ad ascoltare e che, sempre più spesso, la mettesse a tacere nell’intimità della suite, nella penombra del pomeriggio assolato come nel buio della notte stellata. La Signora L. arrossì al solo ricordo. Poi inorridì all’immagine del marito e riprese ad armeggiare con le creme. E al ricordo degli addominali sodi del maschio e del suo grosso attrezzo, la Signora L. si arrese all’idea di aver fatto bene. E le argomentazioni che portava ogni minuto se stessa erano più che convincenti: quello del Bepi era piccolo, sottile e poco volenteroso. Nascose stavolta la risata dietro un velo di cipria e riprese col trucco. Lo aveva imparato a un corso per estetiste che dopo copri occhiaie e fondotinta, andava steso un velo di cipria. Serviva per fermare il nero della matita, per definire il contorno labbra, perché risaltasse il fard. Così, era stato anche a causa del trucco sapiente, oltre che della frangia a picco sugli occhi, che il giovane le aveva domandato se potesse offrirle qualcosa da bere. E fu perché lei l’aveva già visto occhieggiare verso il suo lettino sotto l’ombrellone, perché l’aveva aspettato tanto quel momento, e l’aveva più volte accarezzata quell’idea, che l’emozione tradita era stata doppia. Era dai tempi del liceo, che non si era sentita così felicemente imbarazzata, così ridicolmente felice. Da quant’era che Bepi non allungava la mano verso la sua, che non le cedeva il passo, sempre con quel cazzo di telefonino attaccato all’orecchio e con quei problemi di finanza di cui lei non capiva niente. Per non parlare del resto. Di quel mondo sconosciuto che era il sesso, di cui lei sapeva e aveva visto anche, ma provato così poco, come le dita, che basta saperle usare per far accendere il motore, per esempio, o la lingua, che deve sapersi fermare nel punto giusto, o lingua e dita assieme che sanno produrre anche sinfonie, come il palmo della mano, o il dorso, che può creare assoli percussivi e irregolari. Quando il ragazzo le aveva proposto il bagno, la Signora L. non poteva certo immaginare che le sarebbe scivolato dentro così svelto e così in fondo. L’aveva letto da qualche parte, probabilmente ne “Il maestro di sci d’acqua e la bellissima Denise”, o nel coinvolgente “L’angelo di Miami”, l’aveva anche visto, sì, certo, per sbaglio, sulle riviste sconce che il Bepi credeva di tenere ben nascoste. Ma come poteva pensare che quel bagno in mare potesse produrre tutto quel piacere, un’ondata così forte di piacere, che per la testa le passarono perfino immagini di sapore epico: un Giove arrapato in veste di cigno e una Leda ormai vinta pronta a tutto. E mentre indossava un morbido abito color marron clacé plissettato al termine della mezza sirena, la bella Leda della provincia più nebbiosa e triste del Nord pensò che, forse, prima di partire gli avrebbe dato per giunta il suo bel culo vergine. Passandosi attorno al collo una sciarpina di seta che ammorbidì lungo la linea del seno, nascose allo specchio lo sguardo sensuale. Era prontissima. Lui l’aspettava nella hall. Lui aveva prenotato il ristorante e preso a nolo l’auto con autista. Sapeva già della rosa che l’aspettava, ormai una consuetudine come il bacio: formale in pubblico, appassionato al chiuso dell’auto.
Prima di uscire si passò appena due cocce di profumo, un profumo maschile e secco, perfetto per la sua corporatura lunga e sottile e per l’aria algida che la pelle chiarissima le dava. Aguzzò lo sguardo miope verso la poltrona, ma non vide la testa pelata del marito, si concentrò sull’udito cercando di captare almeno la sua risata. C’era solo silenzio e il lieve ronzio del frigobar. Prese il cellulare e gli inviò il solito messaggio cui lui rispose nel solito modo.
Al suo ritorno, nemmeno se ne sarebbe accorto, il Bepi, che sua moglie si era fatta sbattere per venti giorni consecutivi da un tunisino di trent’anni tatuato, dallo sguardo dolcissimo, e dotato di arnese extra large, e meno che mai si sarebbe accorto del conto spese, né del cospicuo assegno che, quella sera stessa, sua moglie avrebbe intestato al ragazzo per quei venti giorni di eccitante e solida compagnia.

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