Era annunciato in un certo senso già dalla fine degli anni ’80, quando i più acuti osservatori (vedi Stiglitz, Il ruolo economico dello Stato) si resero conto che il neo liberismo che invocava la minimizzazione dello Stato, lo smantellamento del welfare e la disuguaglianza come motore economico, avrebbe avuto come effetto quello di lasciare ciascuno in balia del proprio egoismo, ma avrebbe anche ridotto il senso di responsabilità collettiva e aiutato la segmentazione degli interessi e l’investimento emotivo sul comunitarismo localistico. Del resto anni e anni di ” ammaestramento” alle parole d’ordine del pubblico come inefficiente, dell’autoregolazione dei mercati, della crescita indefinita come se risorse e ambiente fossero infiniti, dovevano alla fine provocare l’apatia sociale, l’insensibilità allo sfruttamento e come compensazione un attaccamento ossessivo ad astratte appartenenze identitarie. Ciò che appunto oggi viviamo.
Capisco che ciò che sta succedendo in Val Susa, sia un coagulo di errori e che la battaglia finisca per attirare l’ira, la rabbia, la frustrazione di chi si è visto sottrarre grazie a una favola diritti e futuro, in qualunque parte del Paese risieda. Ma dev’essere chiaro che non è la Bastiglia, anzi è la Vandea. E’ il non accorgersi che questo è proprio il gioco del neo liberismo.
Questo in effetti è un paradosso, uno di quei casi di fuori sincrono che la storia offre spesso: la crisi intervenuta nel 2008 è una crisi sistemica del neoliberismo innescata dall’eccesso di finanziarizzazione e dall’impoverimento delle società nel loro complesso. Un fallimento che scopre i veli e fa apparire sempre più chiaro che non solo le promesse non sono state mantenute, ma i problemi suscitati da questo tipo di economia e di politica, non possono essere risolti all’interno dei paradigmi proposti. Questo traspare sempre di più in mezzo ai fumi e agli orpelli emotivi del liberismo selvaggio e si fa strada nella consapevolezza delle persone, la realtà misera diventa piombo e far crescere la rabbia e la rivolta. Tuttavia l’ansia di lasciarsi alle spalle i vecchi emblemi in via di fallimento, ancora non si esprime in progetti di cambiamento globali, in costruzione di prospettive includenti, ma vede una pluralità di battaglie e di gruppi che hanno difficoltà a coagularsi e in lotte localistiche che sono ancora dentro il progetto di smantellamento dell’idea di Stato e di solidarietà, nato alla fine degli anni ’70 e incarnatosi originariamente con Reagan e la Thatcher.
Del resto tutta l’intellighenzia europea e in primis quella politica, non è ancora uscita dal tunnel e spesso sostituisce con le frasi fatte e il breviario delle ovvietà fallaci di un’epoca, la necessità di prospettive nuove, al posto delle vecchie che hanno segnato il fallimento. Così si combatte in Val Susa e si pasticcia in Grecia alla ricerca di uscire fuori dal labirinto. Ma non ci si riuscirà con le idee ingiallite che sono ormai autocontradditorie e le prassi monetarie, nemmeno con la rabbia segmentata di questi giorni: l’inquietante eredità di impoverimento e di rapina di diritti, non può essere risolta con le formule che l’hanno creata e i veleni mentali che hanno sparso. Si ci vuole aria nuova, che dissolva la cappa velenosa di miti e di lacrimogeni.