Ogni tanto mi capita di leggere un romanzo scritto bene, con un bel linguaggio accurato, magari anche originale, una voce narrante che si impone, ma con una storia insignificante. Non dico una storia brutta, di quelle che in ogni caso smuovono qualcosa nel fondo dell’animo del lettore, ma una storia scialba, della quale non si riesce a provare il minimo interesse. In questi casi mi metto nei panni dell’autore e mi domando se ne valeva la pena di investire tante energie per raccontare una storia così irrilevante. Naturalmente l’autore di questa opera X non la penserà come me, per lui senz’altro quella storia sarà la migliore che poteva essere raccontata. Se abbiamo a che fare con un pallone gonfiato costui dirà che l’oggetto della narrazione non c’entra, che la sua è “grande arte letteraria”, che ha deciso intenzionalmente di cimentarsi in una storia che infrange le regole base del romanzo, eccetera eccetera. Per quanto mi riguarda resto fedele alla vecchia, sana, inossidabile idea dei padri tromboni della letteratura, che il compito principale di questa nobile arte debba essere narrare, ovvero tramandare una vicenda, un pensiero, o, in un senso più profondo, svelare. E questo perché, attraverso il romanzo, ciò che si instaura tra autore e lettore è un rapporto di confidenza eccezionale. Il romanzo dev’essere quindi un sussurro rivelatore, e per fare questo occorre che la parola pronunciata in quel sussurro sia straordinariamente interessante. Insomma, io la penso come Aharon Appelfeld:
“La letteratura dice: guardiamo questa particolare persona. Diamole un nome, un luogo. Offriamole una tazza di caffè… la forza della letteratura risiede nella capacità di creare un’intimità”.