“LA VENDEMMIA ULTIMA” di Bruno Centomo per WINE ON THE ROAD

Da Silviamaestrelli

Bruno Centomo, di Santorso (VI), ha pubblicato i volumi di poesia "e la nuvola leggera" 1981, "Rumori Modesti" 1996, “Mottetti d’Elena”, 2004). Sue liriche e racconti sono presenti in antologie di premi letterari, sillogi nazionali ed in riviste locali, nazionali e siti Internet.
Ha ricevuto premi e segnalazioni in un centinaio di Concorsi letterari tra cui il Primo Premio:
"Turismo Veneto" Mestre '87; "San Paolo" Treviso '94; "Antica Badia San Savino" Pisa '96; "Ugo Foscolo" Genova 2002; "Le Groane” Arese (MI) 2003; “Città di Abbadia Lariana” (LO) 2003; "Carla Boero” Chivasso (TO) 2004; ”Calastoria” Valdagno (VI) 2005; ”Rassegna Tassina” Rovigo 2005; ”Città di Lonigo”, Lonigo (VI) 2006; “Artistrada” Colmurano (AN) 2006; “D.Serazzi” Vercelli 2007; “San Maurelio” Malborgetto di Boara (FE) 2007; “Una pagina d’amore” Bussolengo (VR) 2008 e 2009; “Centro Giovani e Poesia” Triuggio (MI) 2008; “La leonessa-Città di Brescia” Brescia 2008 e 2009; “Il trebbo” Riolunato (MO) 2008; “Versi distillati” Brescia 2009; “R.Fertonani” Rivarolo Mantovano (MN) 2010; “S.e A. Norbiato-Città di Spinea” Spinea (VE) 2011.
Ha partecipato al concorso letterario 2011 di Villa Petriolo “Wine on the road” col racconto “La vendemmia ultima”.

RACCONTO “LA VENDEMMIA ULTIMA” di Bruno Centomo

Ho avuto un attimo. Attimo di indecisione, di paura esagerata. Ho avuto questa premura di non farci caso, di andare avanti. Nonostante. Ho temuto gli anni, le intemperie, l’alitosi, i mal di schiena e la polvere, la grigia crudeltà delle foglie che cadono ad ogni autunno, l’inquietante bellezza dei vigneti che diventano rossi e gialli e marrone ed ocra. E paiono morire, dopo tanto vivere. Ma prendersene cura, che vuol dire potarli, liberarne il terreno, parlarci, soffrirci, sporcarci le mani, li fa rivivere, stendere filamenti e braccia e cortecce ad ogni stagione nuova, ad ogni nuovo ammansire di nuvole e vento che finalmente pare stonare la sua nota rigida e sbagliare la tenebra veloce che lo accompagna.
Ho sentito il parlottio dell’erba che mi suggeriva cose, nomi, incantamenti e affanni. Su questa nave di fasciame e oro non avrò più tempo o dolcezza o estasi da contemplare? Eppure quanto il giorno mi si celebra attorno? Siamo venuti qui, braccianti infaticabili di una terra buona, grassa, generosa. L’abbiamo difesa la terra! Ne abbiamo salvato gli odori. Oh, li abbiamo poi finalmente messi in bottiglia. Ne abbiamo estratto il gusto, l’abbiamo spremuto e condensato con cura. Abbiamo catturato i colori, tutti. Certo: là, la notte rischiarata appena da uno spicchio di luna, qui invece la dirompente sfacciata intierezza d’una giornata di sole che acceca, brilla e grida. Ancora i colori delle rose a guardia dei filari abbiamo copiato, petali che si sbracciano e tonfano e speziano la pazienza, la virtù sacrosanta dell’attesa, della speranza.
Sono nato contadino, sono emigrato, ho fatto il contadino, ho coltivato viti e rose. Sono partito per un viaggio. E sono diventato vecchio! Ma devo sempre vedere! Come il giorno sia curioso della notte, come il vino, che ad ogni tappa verso nel bicchiere, mi parla del mio stesso sudore, della mia stessa parola, del mio canto e della mia lagrima e della mia gioia, l’incanto che assaporo e cullo e destreggio tra le pagine del mio racconto. La trama è un susseguirsi ininterrotto di colline rivestite di macramé precisi, esposti al sole, protetti dal gelo, appena appena ovattati di rugiade e nebbie che nascondono i riposi. E poi di legni contorti e duri, di verdi che si contaminano piano di scarlatti e ambrati, di gialli canterini e rossi che già parlano di sangue e amore.
Ho parole pesanti come l’aria, tengo abbracci sempre sospesi per salutare chi nasce e diventa grande per poi andare via. Ma poi magari ritorna. Magari non sempre. Il vento potrebbe adesso finalmente sollevarmi lontano: non tengo più la forza d’un tempo e non so radicarmi come vorrei, come fa il vitigno. Ah, sì: braccia che armeggiano tra sassi e terra, si infilano audaci a stringere radici alle zolle più nascoste, sotto cieli ingarbugliati che osservano e ridono, complici di tanta speranza. Io nelle vene stento a dipanare un triste silenzio che pare durare una eternità, ma si scompone rapido ad ogni rasserenamento dopo il temporale, ad ogni istantanea luminosa prima del tramonto, a ciascuna piccola immensità mi si apre di fronte traversando i filari per respirarne i sussurrii, le domande ingenue, le dichiarazioni più inattese.
E domani pioverà? Su una terra che aspetta conforto di piogge leggere, pare venirsene giù il mondo intero e noi si sta piccoli ad annunciarne l’eternità. Così passo dopo passo, traversando direzioni e lucentezze, sferruzzate nevicate che coprono le ingordigie frenetiche dei rumori e del tempo gelato, cieli azzurri che soffiano alle stelle nascoste i bagliori di sole ingelosito, sono arrivato al mio primo ultimo mattino. Quello che la luce fioca dell’aurora fa stentare tra i tralci densi e gli acini pesanti. Un sussulto, una brevissima parabola di contorsioni, scricchiolii e infantili giocosi vagiti mi avrebbero confuso per l’ebbrezza spontanea che accompagna la vendemmia. Fa ancora caldo: non capisco se una tale potenza di sensazioni oggi mi muove più piacere o paura, stavolta forse una inquietudine inaspettata.
Posso ripassare i verbi del mio viaggio: dissodare, arare, innestare, piantare e poi irrigare, concimare, potare e infine anche raccogliere, pigiare, lasciar macerare e fermentare, travasare, svinare e imbottigliare. Vivere dentro questo odore di mosto e alcool e vino infine per sempre! Odore che sale direttamente dalla terra e si fa riconoscere puntuale ed estremo. E per cui ogni azione ha un attrezzo da abbinarvi, una data da appuntare sul calendario della memoria. E ci sono due altri verbi che invece, molto più antichi e segreti degli altri, si devono anteporre agli altri messi assieme e cioè pregare e sperare.
Possibile abbia scordato questo appuntamento con la nuova vendemmia? E me ne stia qui, un po’ spaventato sotto questo ciglione, appoggiato al muro ascoltando il mio cuore sempre più indistinto. Sto raggomitolato a imprese e delusioni, difficoltà e successi. Ma anche adesso, mentre i cesti sono già tra i filari e la gente schiamazza e ride e chiama a raccolta, e i trattori fremono e nelle cantine si preparano i tini, temo l’improvvisa tempesta, l’invasione delle muffe e degli insetti. La terra si bea del tuo lavoro, talora ti prende in giro e pure inganna, ma sempre soffre con te. Chiudo gli occhi, calco il cappellaccio sulla testa. In certi momenti bisognerebbe trattenere solo i ricordi delle cose buone. Accidenti, mi sono scordato mettere nella bisaccia, col pane e il formaggio per la pausa di mezzogiorno, la bottiglia di vino. E già belle, brutte, impetuose e dolorose, le memorie, come le stagioni e le sofferenze, mie e della terra, del corpo e dei sentimenti, come preghiera che si recita la sera, una ad una mi si sfilano tra le mani. Senza riesca più a trattenerle per deporle nella gerla con i grappoli maturi. Come sempre ho fatto ad ogni vendemmia.
Basta attendere che il colore della luna divenga giallo perfetto, dissolvendo il fulmineo sanguigno alone che la camuffa alla vista. Occorrerà badare al roseto purpureo, quanto ai vigneti. Domani. Domani.

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