Io non dico sempre la verità. Sono attendibile al novanta percento per cento, credo. Certe volte esagero in iperboli descrittive, altre ancora non esprimo esattamente quello che penso per non offendere, per tranquillizzare, perchè si tratta di robetta di poco conto, per quieto vivere.
Sulle faccende serie faccio del mio meglio per non transigere. Su quel che ritengo profondamente giusto o profondamente sbagliato sono chiara. Al lavoro preferisco dire cosa so di una determinata cosa, nel bene e nel male, fin dove ne so e perchè ritengo sia necessario intraprendere determinate azioni. Poi incrocio le dita e spero che chi mi ascolta abbia la capacità, il buon senso, la ragionevolezza per valutare quanto dico e decidere di conseguenza come comportarsi. Se ho ricevuto una direttiva e la devo applicare spero, in caso di persone di pari grado o di grado inferiore al mio, che capiscano: non accadesse, agisco comunque, dato che mi è stato imposto, magari dopo un po’ di cagnara che quelli più furbi di me si eviterebbero.
Chi sta sopra si aspetta che, nel rapporto da subalterna, io dica la verità ma, nello stesso tempo, mi chiede, riguardo al rapporto che ho con chi riceve indicazioni da me, di filtrare le informazioni e fare in modo, con abili esercizi di diplomazia, di convincere gli altri senza che si rendano conto che li ho convinti. Questo macchiavellismo è al di là delle mie capacità ed è per certo uno degli aspetti che mi sono di ostacolo. Fosse nelle mie capacità, non credo sarei disposta a farlo: a parte che richiede uno sforzo enorme, mi suona di piccolezza. Credo che, per i maestri di tale arte, sia invece da tenere in alta considerazione. Per cui, ecco, quando mi dicono che dovrei imparare a farlo ma non mi danno esempi concreti in cui il mio agire secondo loro avrebbe dovuto essere diverso, io mi inquieto e non poco. Resto nervosa per ore, mi rovisto la coscienza e me la affollo di domande. Poi mi chiedo se negli ultimi vent’anni ho buttato un sacco di tempo che avrei potuto investire a fare ciò che mi piace e che avrei potuto fare in solitaria: occuparmi di libri sistemandoli sugli scaffali, ad esempio, o leggerli e studiarli per spiegarli ad altra gente che legge i libri, ad altro esempio.
E succede anche che poi torno a casa, accendo il televisore e sento una voce che rassicura: “Io sarò sempre con voi”. A prescindere dal fatto che preferirei non succedesse, grazie, come si può pensare che un viso che non dimostra i segni dell’età, perché è stato lavorato e ridotto a pelle tesa e gommosa, possa dire la verità? Come credere ad una faccia che è essa stessa una menzogna?
E mi chiedo se mirare come obiettivo alla verità non sia completamente utopistico e anacronistico e non farei meglio a raccontare le mie belle balle anche io.
Ci sono stati lunghi periodi nella mia vita in cui ho fuggito il contatto con le altre persone: preferivo trascorrere giorni e giorni nella mia stanza, tra i libri e i visi dei familiari. Ho avuto bisogno di dilatati tempi di crescita per essere pronta ad affrontare il mondo e, quando mi ci sono finalmente affacciata, mi è sembrato di essere in grado di muovermi abbastanza agevolmente, con goffaggine ma anche con consapevolezza di me stessa. Mi sono anche data delle pacche sulle spalle e mi sono detta che, tutto sommato, non me la stavo cavando male.
E’ da più di dieci anni che lo frequento, adesso, il mondo degli altri e più passa il tempo più mi viene voglia di ritirarmi di nuovo a fare la vita dell’eremita che ero, fatti salvi i viaggi, la scrittura, e qualche ottima frequentazione che mi fornisca alimentazione per la mente.
Dubito che mi sentirei disadattata. E non dovrei giocare sul filo del rasoio di ciò che è vero e ciò che è menzogna: sarei al novanta percento vera a me stessa; e questo potrebbe bastarmi.