Disse una volta Gianni Rivera: “Se il calcio non fosse esistito, Pelé lo avrebbe inventato”. Dunque, non c’è partita: Pelé è meglio di Maradona. I napoletani non ci stanno e tutti, ma proprio tutti, nobili e plebei, lazzaroni della curva Sud e giacobini del comitato “Te Diegum”, cantano il coro da stadio: “Maradona è meglio ‘e Pelé, c’ammo fatto ‘o mazzo tanto p’ l’ave’…”. Sul mazzo non discuto, ma sul primo endecasillabo sì, perché riconoscendo in Pelé un termine di paragone oltre il quale sarebbe impossibile andare, ripete in musica quanto Rivera disse in prosa: Pelé è l’idea platonica del calcio che si è fatta giocatore in campo. Dunque, sono proprio i napoletani a dirci che il più grande di tutti fu il brasiliano vincitore di ben tre Mondiali (e forse persino del quarto se nel 1966 gli inglesi non lo avessero azzoppato).
Mauro Maldonato, che se non sbaglio gioca a centrocampo e forse ha un futuro da allenatore, ha avuto una buona intuizione a organizzare la tavola rotonda sulla grandezza di Pelé e Maradona per chiudere la Settimana internazionale della ricerca dedicata a “L’invenzione della verità”. Non c’è, infatti, miglior tema del gioco del calcio per mettere in fuorigioco quello che è il tabù o canone dell’Occidente: la verità. Se è vero che Pelé avrebbe inventato il calcio se non fosse esistito, è altrettanto vero che il gioco calcistico avrebbe inventato la filosofia se non fosse stata inventata da Eros. L’anima del calciatore è interamente dominata dall’amore platonico: il buon calciatore, soprattutto il più bravo, non può neanche lontanamente immaginare di essere il padrone del gioco, altrimenti verrebbe meno la sua possibilità di giocare, e può solo desiderarlo. In fondo, non accade così anche nelle nostre vite? Se uno di noi ne diventasse il padrone, non potremmo più vivere secondo quell’umanità che è un impasto di sapienza e ignoranza, controllo e abbandono. Sono questi i due principi del calcio: per poter giocare devo saper controllare la palla, ma il controllo non è finalizzato a se stesso, bensì al gioco che esige che la palla sia “giocata” ossia abbandonata.
Filosofare, diceva Pascal che si era allenato nell’ottimo vivaio di Port-Royal che reinventò la verità, è prendersi gioco dei filosofi. Sarà per questo che gli intellettuali giocano con il calcio ma poi, quando si comincia a fare sul serio, ne prendono le distanze “perché la verità è un’altra cosa”. Che autogol!
Gadamer, che quando giocava a Napoli riempiva le gradinate di Palazzo Serra di Cassano come Maradona le gradinate del San Paolo, amava ripetere che il gioco è cosa seria e chi non lo prende sul serio è un guastafeste. Il gioco del calcio in relazione alla Verità va pensato seriamente perché non è solo una metafora della vita, come ripeteva Sartre, ma un modello cognitivo che con la sua connaturata idea di pluralità dà scacco matto al fenomeno politico più drammatico della Modernità: il totalitarismo. Non a caso Hitler e Stalin pretesero di controllare tutto e ci riuscirono. Ma quando pretesero di controllare anche il pallone persero. Il calcio di Pelé, Maradona, Rivera ma anche quello dei ragazzini che si contendono ora davanti ai miei occhi il “divino pallone”, ci fornisce il modello per non ricadere nel totalitarismo della verità e del potere.