La verita' sulla pressione fiscale

Da Roxioni
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di Paolo Cardenà
Nei giorni scorsi ha suscitato non poco clamore il monito lanciato dalla Corte dei Conti che ha denunciato il livello preoccupante del prelievo fiscale  indicandolo al 45% del Pil.
Il dato, pur essendo di per se una grandezza che desta non poca preoccupazione, in realtà,  non ci racconta l’esatta situazione del prelievo fiscale e la relativa disuguaglianza tributaria, se non scomposto tra le varie categorie di
contribuenti che lo compongono.
Ebbene, anche in questo caso, alcune precisazioni sono d’obbligo  poiché, questo dato , esprimendo delle variabili aggregate, sintetizza, di fatto, un indicatore medio del livello di tassazione nell’universo di una popolazione. In altre parole, proprio perché rappresenta un valore medio e quindi, per definizione, soggetto a distorsioni, non esprime in alcun modo il livello di tassazione per alcune categorie di soggetti che può raggiungere, come vedremo in seguito, livelli decisamente distanti dalla media indicata dalla Corte dei Conti, manifestando, in maniera inquietante, la disparità fiscale esistente in Italia.
Poniamo ad esempio un piccolo imprenditore commerciale che, nel primo anno di attività,  abbia conseguito un utile da bilancio al 31/12 pari 70 mila euro e che, per  effetto della ripresa a tassazione di alcune componenti di costi non deducibili o parzialmente deducibili (es.: Autovetture, ristoranti ecc ecc), il suo reddito fiscale sia 76 mila euro. Un ottimo utile si direbbe! Ma quanto rimane effettivamente in tasca al nostro contribuente e quel’è la pressione fiscale che egli subisce?
Nel caso appena descritto, il nostro contribuente, benché abbia realizzato un utile al lordo delle imposte di 70 mila  euro, egli dovrà corrispondere imposte su un reddito fiscale di  76 mila euro e, a conti fatti, tra Irpef, Irap, addizionali regionali e comunali e contribuzione Inps, egli dovrà versare all’erario  circa 47 mila euro su 70 mila  di utili realizzati; euro più, euro meno.
Benché il prelievo  fiscale, in questo caso, sia già di oltre il 67% dell’utile della sua attività, il nostro contribuente dovrà all’erario, fuori dal perimetro del suo reddito e della sua attività di impresa,  altre imposte come, ad esempio, l’iva sui consumi, l’Imu sulla sua abitazione, eventuali imposte di bollo, di registro  ed altro. Quindi, ipotizzando che egli spenda, in termini di consumi 18 mila euro per il suo sostentamento e della propria famiglia ed ipotizzando un aliquota media dell’iva del 16%, egli verserà, indirettamente, allo stato altri 2500 euro di imposta sul valore aggiunto, arrivando così ad oltre i  49 mila euro di imposte pagate su 70 di utile realizzato, che rappresentano ben il 71%. Sommando l’eventuale Imu e altre tasse minori (ma non marginali) e altre occulte, potremmo arrivare agevolmente  alla soglia  75% del reddito prodotto, o forse più. Analogo discorso può osservarsi per i redditi da lavoro dipendente.
A tale livello di pressione fiscale ai limiti dell’impossibile e dell’insostenibilità, si contrappone un regime molto più agevolato  per le rendite di natura finanziaria tassate al 20% (12.5% nel caso di titoli di stato), e per i redditi derivanti da locazioni di immobili ad uso  abitativo per i quali, il legislatore, seppur con alcune distinzioni, ha previsto un aliquota secca del 21%.
Benché gli esempi sopra riportati, nella loro semplicità, costituiscano dei casi limite del sistema fiscale italiano (ma non troppo a dire il vero, considerata la vastità della platea dei contribuenti interessati da tali fattispecie), ci offrono uno spaccato abbastanza significativo del sistema impositivo  vigente e delle disparità celate dal dato aggregato della pressione fiscale.  In buona sostanza, si preferisce adottare la mano morbida sulle rendite finanziarie e sui patrimoni - talvolta utilizzati anche per condurre azioni  speculative a danno dell’economia - mentre si usa la mano pesante per i redditi derivanti da lavoro, da attività di impresa, o che comunque sono finalizzati allo sviluppo economico e quindi alla crescita del benessere collettivo.
E’ evidente che il livello di prelievo fiscale sul lavoro e sulle attività produttive si traduce, oltre che in una minore capacità di spesa dei contribuenti, anche  in un immediato abbattimento  dei livelli di competitività delle imprese, costrette, quindi, a praticare un livello di prezzi più elevato, rispetto ai competitor esteri, al fine di recuperare la redditività compressa dal prelievo fiscale. Quindi, appare indispensabile che al rilancio del sistema Italia, debba necessariamente contribuire anche  una rimodulazione del sistema impositivo fiscale che dovrà ispirarsi  a principi di maggiore equità e progressività di contribuzione, aumentando sia il prelievo sulle rendite finanziarie e sui patrimoni, a favore di una diminuzione significativa del prelievo sul lavoro e sulle attività produttive.
Questa soluzione, oltre a favorire una diminuzione dei fenomeni evasivi ed elusivi, renderà le nostre imprese più competitive nei confronti di concorrenti esteri e permetterà di aumentare la capacità di spesa delle famiglie e delle imprese, generando, non trascurabili, dinamiche virtuose per il ciclo economico.  source