La vetrina degli incipit - Aprile 2012

Creato il 01 maggio 2012 da La Stamberga Dei Lettori
L'incipit in un libro è tutto. In pochi capoversi l'autore cattura l'attenzione del lettore e lo risucchia nel vortice della storia. Oppure con poche banali parole lo perde per sempre...Quanti libri, magari meritevoli, giacciono abbandonati dopo poche righe sui comodini di ogni lettore? E quanti altri invece sono stati divorati in poche ore perchè già dalle prime righe non siamo più riusciti a staccare gli occhi dalle pagine?
Anche questo mese vogliamo condividere con voi gli incipit dei libri che stiamo leggendo, perchè alcuni di voi possano trarre ispirazione per le loro future letture e perchè altri possano di nuovo perdersi nel ricordo di personaggi e atmosfere che già una volta li avevano rapiti...



Lo staff della Stamberga

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«L'occupante tedesco, quando conquista Varsavia nel 1939, trova la società ebraica in uno stato di totale disgregazione e di caos. Praticamente l'intero nucleo degli attivisti ha lasciato la capitale il 7 settembre. I leader politici, i responsabili delle attività sociali, gli intellettuali hanno abbandonato la città alla propria sorte. La massa degli ebrei, 300.000 persone, si è sentita, più degli altri abitanti del luogo, sola e priva di ogni guida. Data la situazione, per i tedeschi non è difficile conquistare, in tempi brevi, il controllo su questa massa, e riuscire a portarla, con una serie di misure reperssive, a uno stato di passiva rassegnazione.»
Il Ghetto di Varsavia lotta, di Marek Edelman - Mara
«La bambina entrò nella stanza. Tutto era di legno chiaro, come in una baita. Il sole entrava dorato dalle finestre. Una persona era seduta di spalle. «Entra, siediti, non avere paura», disse una voce cordiale e suadente. Sulle mensole c’erano tanti pupazzetti ben allineati. Nanetti e gnomi per lo più, ma non solo. E sul legno rovinato del tavolo brillavano alcuni bisturi. Una ragazzina era stata trovata senza testa.
L’Observer ovviamente non pubblicava la fotografia del corpo. Ma l’immagine di un collo ridotto a moncherino sfilacciatosi compose nell’immaginazione di Nor. Un altro angelo caduto. Per sapere quanti erano, ormai, sarebbe stato necessario fare i conti. Richiuse il giornale e lo lanciò sul tavolo. Il telefono non smetteva di suonare. Si alzò per raggiungerlo ma scattò la segreteria»
La fantasia dello scarafaggio, di Edward Punch - Pythia
«Un’antica leggenda narra di un monte scaldato dal sole, nella regione che i Romani avevano chiamato Raetia, al confine tra l’Impero e le terre dei guerrieri barbari. Il suo suolo è polvere e roccia, la vegetazione rada. Ma un tempo, dicono i contadini che ancora vivono sulle sue aspre pendici, era coperto da boschi di querce alte fino al cielo e dai tronchi larghi come le braccia di sei uomini. Boschi sacri che nascondevano segreti sussurrati dal vento. Nessuno sa dire cosa sia accaduto a quegli alberi antichi. Secondo alcuni il loro legno si trova ora sepolto nel mare su cui sorge la città di Venezia, portato in tempi lontani per costruire le umide fondamenta della città eretta sulle acque. Ma la verità si nasconde tra le pieghe di un passato dimenticato in cui gli uomini alzavano le loro spade al cielo, fratello contro fratello, divisi dall’orgoglio, dal potere, dalla fede. Erano tempi in cui un grande re sognava la pace e un impero unito sotto il legno della croce. Ma molto sangue avrebbe bagnato la terra ancora, prima di saziarla.»
Dreamlamd forest, di Romina Casagrande - Valetta
«Non avrebbe voluto. Si sentiva a disagio, inadeguato anche, ma doveva farlo. Non poteva sottrarsi. Era compito suo e aveva fatto tutto con cura. Aveva preparato quella “missione” nei minimi dettagli. Teneva il plico nella sacca di pelle marrone, quella con la cinghia per poterla portare a tracolla. La sacca era poggiata sul sedile accanto. Fortunatamente nello scompartimento c'erano solo altri due passeggeri: un prelato immerso nella lettura della rivista Famiglia Cristiana e una donna “in carriera”, disinvoltamente fasciata in un tailleur grigio, intenta a scrivere una relazione di lavoro sul suo notebook. A dispetto di quell'inizio di primavera così mite e tiepida, il convoglio che portava da Torino a Parigi era semivuoto. Meglio così. Posò il palmo della mano sinistra sulla borsa, carezzandola. Il contatto fisico gli dava un senso di sicurezza. Piegò il capo sulla destra, poggiando la tempia sul morbido poggiatesta del sedile di prima classe. Con occhi semichiusi vedeva sfrecciare la scia del paesaggio che via via accoglieva il treno lanciato a gran velocità. Quella mattina si era alzato molto presto. Voleva sbrigare la faccenda prima possibile. Se tutto fosse andato per il verso giusto, contava di poter prendere il treno di ritorno già nel tardo pomeriggio ed essere a casa per le prime ore della mattina seguente. Sì, voleva che fosse così. Fosse dipeso da lui, non sarebbe stato su quel vagone. A recapitare quella missiva, così particolare, ci avrebbe pensato qualcun altro. Questo pensiero accese un accenno di sorriso sul suo volto. Quindi dovette cedere al peso delle palpebre che era divenuto insostenibile. Al paesaggio di campagna si era sostituito un groviglio di pensieri che accompagnavano Goffredo in quel misterioso e inesplorato sentiero che conduce dalla veglia al sonno. Pensieri in cui la Mole Antonelliana si confondeva con la torre Eiffel, i contorni della piazza vicino casa sfumavano trasformandosi in quelli, ben più animati, di un'altra piazza, ricca di fontane, sculture, bancarelle e, in primo piano, l'immagine di una ragazza con dei riccioli fulvi davanti agli occhi. Cornici, tante cornici. Quadri. Quanto amava la pittura. Ne era rimasto affascinato da quando era solo un bimbo. Pennelli, cavalletto, tavolozza, colori, tela. Una tela enorme, bianca, intonsa. La tela si andava ingiallendo. Diventava grigia, poi grigia scura, sempre più tetra. Nera. Tutto era nero, buio, assenza di coscienza. Si era addormentato.»
Il precario equilibirio della vita, di  Giorgio Marconi -Daniele
 
«Saltato su un treno merci che partiva da Los Angeles in pieno mezzoziorno d'una giornata di fine settembre del 1955 presi posto su un carro aperto e mi sdraiai col mio sacco a spalla sotto la testa a gambe accavallate e contemplai le nuvole mentre correvano a nord verso Santa Barbara. Era un treno locale e la mia intenzione era di dormire quella notte sulla spiaggia di Santa Barbara e salire la mattina dopo su un altro treno locale fino a San Luis Obispo oppure su un merci espresso che arrivava direttamente a San Francisco alle sette di sera. »
I vagabondi del Dharma, di Jack Kerouac -Tancredi

«Lanciò un'occhiata al baule in cuoio beige, sistemato nel corridoio accanto alle altre valigie. Si voltò verso la signora Banfield, la cara Margarida Banfield, e allungò il braccio verso di lei per afferrare il bicchiere d'acqua che gli porgeva. Ringraziò e bevve d'un fiato. Rifiutò l'invito a visitare l'appartamento. Conosceva già la casa. Aveva amato ciascuna delle tre piccole stanze, l'arredamento semplice e rustico, il canto stridulo e appassionato degli uccelli all'esterno, l'immensità della valle di fronte alla veranda. A qualche decina di chilometri a sud, il Corcovado e il Pan di Zucchero si ergevano come monoliti sopra alle isole che affioravano dal mare. In quei paesaggi c'era il cuore del mondo.»
Gli ultimi giorni di Stefan Zweig, di Laurent Seksik - Sakura
«Ogni sera sulle rive del Moor una vacca restava immobile a guardare. Si ergeva contro il cielo chiaro sopra la linea dell’orizzonte e le faceva da basamento il riporto di terra scavato dalla montagna nella primavera del 1916 per fare posto e riparo a una batteria di cannoni Malinconico e assorto, rannicchiato nella poltrona di vimini e con una coperta che lo avvolgeva a ripararsi dall’aria fredda, Gigi Ghirotti guardava anche lui in silenzio.
Poi disse sottovoce: − Cosa guarderà quella vacca? O cosa penserà? La vedo sempre lì tutte le sere. Forse, − aggiunse al mio silenzio, − vorrà riempirsi dentro di queste ore, con le immagini e i rumori, per quando la neve e il freddo la terrà rinchiusa per mesi nella stalla. O per quando sarà morta.
− Forse, − risposi allora, − aspetta di vedere sorgere il sole. Non vedi come guarda sempre verso mattina?
Intanto giù dai boschi e dalla montagna scendeva la notte; ma anche nel buio, contro il cielo stellato, la vacca restava immobile a guardare. Era come il tempo.
Incominciai allora a raccontare a Gigi la storia di Tönle Bintarn.»»
Storia di Tönle, di Mario Rigoni Stern - Stefano di Stasio
«Gilles Mauvoisin si guardava attorno senza vedere, e aveva gli occhi e le palpebre arrossati di chi ha pianto molto. Eppure non aveva pianto. Il capitano Solemdal gli aveva detto di tenersi pronto e di aspettare nella sala uffciaili, dove, durante la traversata, gli venivano serviti i pasti. E lui rimase lì ad aspettare, con indosso un lungo cappotto nero che non era suo, un berretto di lontra anch’esso nero e la valigia al fianco, come nel corridoio di un treno poco prima dell’arrivo. E con in mano un fazzoletto, perché era raffreddato. Il Flint stava già entrando nel bacino dei pescherecci e il giovane non era ancora riuscito a vedere niente della Rochelle. Forse il suo oblò stava dalla parte sbagliata… In mare, la nave aveva sfiorato delle boe rosse e nere che probabilmente segnalavano l’accesso al canale; quindi era passata in mezzo a due filari di tamerici tanto vicine da poterle toccare. A quel punto erano iniziate le manovre, il ticchettio del telegrafo, la velocità ridotta, e i comandi: stop, indietro, stop, avanti…»
Il viaggiatore del giorno dei morti, di  Georges Simenon - Vittoria A.
«Sono nato due volte: prima, come una bambina, in una giornata del gennaio 1960 dall'aria particolarmente pulita, a Detroit; e poi di nuovo, come un ragazzo adolescente, nella sala di un Pronto Soccorso vicino Petoskey, MIchigan, nell'agosto 1974. Forse dei lettori specializzati si saranno imbattuti nel mio caso sull'articolo del dr. Peter Luce, "Identità di genere negli pseudoermafroditi da deficit di 5 alpha reduttasi", pubblicato nella 'Rivista di Endocrinologia pediatrica' nel 1975. O forse avrete visto la mia fotografia nel sedicesimo capitolo dell'ormai tristemente datato saggio 'Genetica ed eredità'. Sono io quello che a pagina 578 sta in piedi, nudo, di fianco a un metro, con gli occhi schermati da un riquadro nero.»
Middlesex, di Jeffrey Eugenides - Polyfilo
«Guardiamo i libri, per cominciare. C'erano i romanzi di Edith Wharton, allineati sullo scaffale non in ordine alfabetico per titolo ma per anno di pubblicazione; c'era l'opera completa di Henry James della Modern Library, regalo del padre per il suo ventunesimo compleanno; c'erano i testi con le orecchie alle pagine usati per gli esami, molto Dickens, un assaggio di Trollope, dosi generose di Jane Austen e George Eliot e delle formidabili Brontë. Un buon numero di tascabili New Directions con le copertine bianche e nere, soprattutto poetesse come H.D. o Denise Levertov. I romanzi di Colette letti di nascosto. La prima edizione di Coppie, appartenuta a sua madre, che Madeleine aveva sfogliato clandestinamente in prima media e ora aveva utilizzato come supporto testuale per la sua tesi di laurea sulla trama del matrimonio. C'era, insomma, questa biblioteca di medie dimensioni ma ancora trasportabile che riuniva quasi tutte le letture di quattro anni di college, una raccolta di volumi apparentemente casuale che a poco a poco trovava un senso, come uno di quei complicati test della personalità che non ti permettevano di barare prevedendo le implicazioni delle domande, e dove ti smarrivi al punto che l'unica soluzione era rispondere la verità. E poi aspettavi, sperando che il responso fosse "Artista" o "Passionale", pensando di poter sopportare "Sensibile" mentre in segreto temevi "Narcisista" e "Casalinga", per ottenere infine un risultato a doppio taglio che ti faceva sentire diversa a seconda del giorno, dell'ora o del ragazzo con cui stavi: "Inguaribile Romantica".»
La trama del matrimonio, di Jeffrey Eugenides - Morwen
« Gli allievi mi chiedono: come si raggiungono le vette dell'arte culinaria? Con gli ingredienti più freschi, i sapori più ricchi? Con i piatti rustici o quelli raffinati? Con niente del genere. La vetta non si raggiunge mangiando, ne cucinando, ma solo offrendo e condividendo il cibo. Le pietanze migliori non dovrebbero mai essere consumate in solitudine. Che piacere può provate un uomo nel cucinare, se poi non invita i suoi amici più cari, e non conta i giorni che mancano al banchetto, e non compone una poesia che accompagni la lettera di invito? Liang Wei, L'ultimo chef cinese, Pechino, 1925»
   L'ultimo chef cinese, di  Nicole Mones -Romina 


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