La vetrina degli incipit - Luglio 2015

Creato il 01 agosto 2015 da La Stamberga Dei Lettori

L'incipit in un libro è tutto. In pochi capoversi l'autore cattura l'attenzione del lettore e lo risucchia nel vortice della storia. Oppure con poche banali parole lo perde per sempre...
Quanti libri, magari meritevoli, giacciono abbandonati dopo poche righe sui comodini di ogni lettore? E quanti altri invece sono stati divorati in poche ore perché già dalle prime righe non siamo più riusciti a staccare gli occhi dalle pagine? Anche questo mese vogliamo condividere con voi gli incipit dei libri che stiamo leggendo, perché alcuni di voi possano trarre ispirazione per le loro future letture e perché altri possano di nuovo perdersi nel ricordo di personaggi e atmosfere che già una volta li avevano rapiti...



***
«Now that the dust has settled we can begin to look at our situation. Now that the last tile has been lain on the roof of the New House, now that the marriage contract is four years old. The town smells of summer; not very pleasant, that is, but the same of last year, the same as the years to follow. The new House smells of resin and wax polish, it has the sulphurous odour of family quarrels brewing.»
A place of greater safety, di Hilary Mantel - Valetta

««Ti abbiamo riacciuffata per i capelli», è la seconda cosa che mi ha detto mio padre, quando mi sono svegliata nel letto dell’ospedale. La prima, «Penelope», il mio nome, pronunciato piano, più come una madre che come un padre.
Intanto, il mio corpo riprendeva coscienza di sé. Avevo un tubicino infilato nella narice destra. Papà mi ha fatto segno di non toccarlo: era fissato al naso con un cerotto. Nell’altra estremità del sondino gocciolava del liquido da una sacca sospesa a un trespolo. La stanza era bianca, quadrata: a destra e a sinistra, come due ladroni, altre persone giacevano in altri letti. Avevo vergogna di guardarle, ma avvertivo la loro presenza e quella di molteplici altri che si affaccendavano intorno a quei letti. Davanti al mio, solo mio padre, nei cui occhi scuri e fissi cercavo un appiglio. La sua mano ha trovato la mia sotto il lenzuolo di cotone; le nostre dita si sono strette. Mi è sembrato un gesto antico, a cui non ero più abituata. Mi sono sentita come il relitto di un’altra epoca, naufragata tra quelle lenzuola per uno scherzo del tempo. E forse era proprio così.
Adesso, anche l’ospedale è un ricordo, uno di quei ricordi che la psicologa mi incoraggia a trascrivere «con metodo e onestà». Ma che onestà ci può mai essere nel racconto della propria vita? Eppure, secondo lei, ricostruire la catena di azioni e di pensieri che mi hanno portata in quel letto d’ospedale può servire. Alla comprensione, se non all’accettazione del mio stato. Alla rassegnazione, io credo. Mi devo rassegnare alla vita.
»
Un’altra Penelope, di Chiara Pagliochini - Patrizia O.

«Che pesante, pensavano i parigini. L'aria di primavera. Una notte di guerra, l'allarme. Ma la notte se ne va, la guerra è lontana. Quelli che non dormivano, i malati accoccolati nei loro letti, le madri con i figli al fronte, le donne innamorate con gli occhi pesti per il pianto, sentivano il primo sibilo della sirena. Era ancora soltanto un respiro profondo, simile al sospiro che esce da un petto oppresso. Trascorsi pochi istanti il cielo intero si sarebbe riempito di clamori. Giungevano da lontano, dall'orizzonte estremo, senza fretta si sarebbe detto! Chi dormiva sognava il mare che spinge in avanti onde e ciottoli, la tempesta che a marzo scuote la foresta, una mandria di buoi che galoppano pesantemente facendo tremare il terreno con gli zoccoli, fino a quando il sogno si interrompeva e, socchiudendo appena gli occhi, l'uomo mormorava: "è l'allarme?".
Le donne più apprensive, più pronte, erano già in piedi. Certune, dopo aver chiuso le finestre, tornavano a coricarsi. La vigilia, lunedì 3 giugno, per la prima volta dall'inizio della guerra, erano cadute alcune bombe su Parigi; ma la popolazione era rimasta calma, nonostante le notizie non fossero buone. Non ci si poteva credere.
»
Suite francese, di Irène Némirovsky - Polyfilo

«Tratterà del Fattaccio la storia che sto per raccontare, ma anche di altro. È proprio per via di quel fatidico evento che ricordo l’estate del 196… in maniera più vivida di qualunque altra della mia adolescenza. Un’estate che ha finito per gettare la sua luce sinistra su tante altre cose. Su me stesso e su Edmund. Sui miei poveri genitori e su mio fratello e su tutto quel periodo; su quella città persa nella pianura, sui suoi abitanti e sugli avvenimenti e su determinate circostanze, che forse non sarei mai riuscito a ripescare dal pozzo dell’oblio, se non fosse per quell’evento spaventoso. Il Fattaccio.»
Il ragazzo che sognava Kim Novak , di Hakan Nesser - Antonio

«Since Atlanta, she had looked out the dining-car window with a delight almost physical. Over her breakfast coffee, she watched the last of Georgia’s hills recede and the red earth appear, and with it tin-roofed houses set in the middle of swept yards, and in the yards the inevitable verbena grew, surrounded by whitewashed tires. She grinned when she saw her first TV antenna atop an unpainted Negro house; as they multiplied, her joy rose.
Jean Louise Finch always made this journey by air, but she decided to go by train from New York to Maycomb Junction on her fifth annual trip home. For one thing, she had the life scared out of her the last time she was on a plane: the pilot elected to fly through a tornado. For another thing, flying home meant her father rising at three in the morning, driving a hundred miles to meet her in Mobile, and doing a full day’s work afterwards: he was seventy-two now and this was no longer fair.
She was glad she had decided to go by train. Trains had changed since her childhood, and the novelty of the experience amused her: a fat genie of a porter materialized when she pressed a button on a wall; at her bidding a stainless steel washbasin popped out of another wall, and there was a john one could prop one’s feet on. She resolved not to be intimidated by several messages stenciled around her compartment—a roomette, they called it—but when she went to bed the night before, she succeeded in folding herself up into the wall because she had ignored an injunction to PULL THIS LEVER DOWN OVER BRACKETS, a situation remedied by the porter to her embarrassment, as her habit was to sleep only in pajama tops.
»
Go Set a Watchman, di Harper Lee - Sakura

«Il primo lunedì del mese d'aprile del 1625, il borgo di Meung, dove nacque l'autore del 'Romanzo della Rosa', sembrava essere in completa rivoluzione, proprio come se gli Ugonotti fossero giunti per farne una seconda Rochelle. Molti abitanti, vedendo le donne fuggire dalla parte della Gran Via e sentendo i bimbi strillare sulle porte, si affrettavano a indossare la corazza e, rafforzando il loro coraggio, alquanto dubbio, con un archibugio o una partigiana, si dirigevano verso l'osteria del Franc-Meunier, davanti alla quale si pigiava, ingrossando di minuto in minuto, un gruppo di popolo compatto, rumoroso e curioso.
In quel tempo ci si spaventava con molta facilità e quasi tutti i giorni una città o l'altra registrava nei propri archivi fatti di questo genere. C'erano i signori che guerreggiavano; fra loro; c'era il Re che faceva guerra al Cardinale; c'era lo Spagnuolo che faceva guerra al Re. Poi, oltre queste guerre celate o pubbliche, segrete o palesi, c'erano i ladri, i mendicanti, gli Ugonotti, i lupi e i servi che facevano guerra a tutti. I cittadini s'armavano sempre per difendersi dai ladri, dai lupi, dai servi; spesso dai signori e dagli Ugonotti, qualche volta dal Re; mai però dal Cardinale o dagli Spagnuoli. Da questa abitudine ormai inveterata, risultò che il già detto primo lunedì del mese d'aprile del 1625, gli abitanti di Meung, sentendo rumore e non vedendo né la bandiera gialla e rossa, né la livrea del duca di Richelieu, si precipitarono verso l'osteria del Franc-Meunier dalla quale proveniva il chiasso. E non appena arrivati, poterono appurarne la causa.
Un giovane... tracciamo con un tratto di penna il suo ritratto: figuratevi don Chisciotte a diciott'anni, ma un don Chisciotte senza corazza e senza cosciali, vestito di una giubba di panno il cui blu originario si era trasformato in una sfumatura indescrivibile di feccia di vino e d'azzurro pallido. Viso ovale e bruno dagli zigomi salienti, segno indubbio di astuzia; muscoli mascellari enormemente sviluppati, indizio infallibile dal quale si riconosce il guascone, anche senza berretto, e il nostro giovanotto ne portava uno ornato di una specie di piuma; occhio grande e intelligente, naso adunco, ma finemente disegnato, troppo grosso per un adolescente e troppo piccolo per un uomo maturo. Un occhio poco sperimentato avrebbe potuto scambiare il nostro giovane per il figlio di un fittavolo, senza la lunga spada che, appesa a una bandoliera di cuoio, batteva i polpacci del suo proprietario allorché questi era a piedi e il pelo irto della sua cavalcatura allorché era a cavallo.
»
I tre moschettieri, di Alexandre Dumas padre - Daniele

«Stavamo nell'aula di studio quando entrò il preside seguito da un nuovo vestito in borghese, e da un bidello che portava un grosso banco. Quelli che dormivano si svegliarono, e tutti si alzarono in piedi, come colti in pieno lavoro. Il preside ci fece segno di rimetterci a sedere, poi, voltandosi verso il prefetto, gli disse a bassa voce: " Professor Roger, le raccomando questo allievo; entra in quinta. Se dimostrerà diligenza e buona condotta, passerà tra i grandi dov'è il suo posto, data l'età. »
Madame Bovary, di Gustave Flaubert - Chiara A.

«I cacciatori aspettavano silenziosi, con le frecce incoccate nell’arco, immobili come statue. Erano disposti in un vasto cerchio attorno alla tana, e le loro tuniche di pelle, guarnite d’ispida pelliccia grigia, spiccavano scure sul bianco della neve. La lupa, nel buio, in fondo al cunicolo sotterraneo che era il suo rifugio, ne avvertiva l’odore, nonostante il vento spirasse in un’altra direzione, e ringhiava sordamente. Poi sentì il crepitare del fuoco tra le fascine secche ammucchiate contro l’imboccatura della tana, e il fumo acre cominciò a filtrare all’interno. I cuccioli guaivano spaventati stringendosi contro i suoi fianchi. Un paio cominciarono a tossire. Presto il fumo invase completamente la tana. La lupa comprese che lì dentro non c’era più scampo. Si alzò, si scrollò di dosso i piccoli, scoprì i denti, tese i muscoli pronta a balzar fuori e dar battaglia. »
L’Amazzone di Alessandro Magno, di Bianca Pitzorno - Cattivissimaprof


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