Malgrado (o proprio per) le sculacciate a distanza che si stanno scambiando il regista Kechiche e le due attrici in questi giorni, La vie d’Adèle è un romanzo di formazione lodevole, che vale la pena conoscere, non già per la storia in sé che non ha alcuna peculiarità se non quella di raccontare proprio un rapporto come tanti, con gli stessi drammi, le stesse specificità, gli stessi situazionismi di qualsiasi altra coppia e non di qualche forma di vita aliena all the way from Urano. Non già, dicevo, per questa storia, a volte anche maldestra, che si sviluppa negli intervalli dai primi e dai primissimi piani delle due protagoniste, ma dal vigore crudo, pragmatico col quale viene risolta. Lo sciacallaggio della macchina da presa sul volto di Adèle all’inizio spinge quasi ad un’azione difensiva, cavalleresca nei confronti della ragazza, come a voler dire “Avanti sgombrate, non c’è niente da guardare” e poi si trasforma in una sensazione di immobilità incantata, un’epifania sollecita: allora è così che si ride, così che si piange, così che si ama. E perdere il senso della finzione, sfocare i confini del rettangolo cinematografico sempre appesi a quel volto è l’illusione più spettacolare a cui vi concederete di assistere.
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