La vigilia della tradizione.

Creato il 07 dicembre 2010 da Cultura Salentina

di Titti De Simeis

Era la vigilia delle emozioni, dell’attesa, dell’uscita da scuola in anticipo, dei primi profumi di fuoco acceso, di legna umida che stentava a bruciare. La vigilia era un giorno che presentiva l’arrivo delle feste, quelle importanti, gli odori di un mondo incantato, per noi, piccoli, ancora da svelare.

Era il giorno dei sapori speciali, di suoni e musiche che, al mattino, ci svegliavano ancora intirizziti dal sonno, il giorno che consegnava all’inverno le chiavi di casa.

La cucina era spenta, il pentolino per scaldare il latte o la caffettiera non erano sui fornelli, come al solito. Il ‘digiuno’ iniziava così: la tradizione prendeva posto con il trascorrere delle ore.

Un’usanza che, negli anni a venire, ho scoperto appartenere all’Italia meridionale: dalla Campania fino alla Sicilia diverse storie raccontano di una ‘devozione’ alla Madonna dell’Immacolata alla quale si offriva in voto il ‘digiuno’, appunto, nel giorno della vigilia della Sua festività per ricordare una “grazia ricevuta”. Da noi, in alcuni paesi, la ‘vigilia’ era, invece, il giorno in cui si concludeva una ‘novena’ in onore dell’Immacolata Concezione e che aveva inizio il 29 di novembre: il digiuno segnava la fine di un periodo di preghiera e l’inizio della preparazione al Natale.

Si saltava la prima colazione, ma il momento del pranzo era un rito indimenticabile: si tornava da scuola affamati e pronti a gustare una prelibatezza, profumata, bianca di farina, golosa di mollica morbida e irresistibile, pronta per essere farcita con i condimenti più stuzzicanti che le nostre nonne avevano preparato e gelosamente conservato nelle dispense, proprio per quel giorno: la Puccia.

La “Puccia” era un tipo di pane che si preparava esclusivamente per la ‘vigilia’, che arrivava sulla tavola, a volte, ancora caldo e che si condiva con tonno, pomodoro, con le conserve della nonna, appunto, con peperoncini sott’olio, melanzane, pomodori secchi e si mangiava a morsi, come un grosso panino strabordante di ogni prelibatezza. Per noi bambini era fin troppo grande, ma erano guai a tagliarcela a metà, si doveva mangiare così, a costo di infarinarci il naso e le guance. I più dispettosi tra noi, si divertivano a soffiare sulla superficie e a far volare la farina dappertutto, e, spesso, ce la ritrovavamo tra i vestiti, la sera, quando andavamo a dormire.

Nei piatti dei “grandi” c’era una ‘specialità’ il cui odore non ci invogliava per niente, ma che avremmo poi imparato a gustare col tempo. Per noi era solo un intruglio strano, di pesce, pane grattugiato imbevuto di aceto, aromatizzato con varie erbe, tra cui menta e abbondante aglio, che ci faceva storcere il naso, ma che sembrava essere una delizia a giudicare da come la gustavano tutti.

Da grandi scoprimmo che lo Scapece è uno dei piatti più conosciuti della cucina salentina, molto apprezzato e ricercato, ma, allora, la nostra attenzione era rivolta ad altre ricette, più stuzzicanti, che a volte diventavano persino giocose. Una zia veniva apposta a casa nostra, la mattina della vigilia, per preparare l’impasto per una di quelle ricette che non avremmo più dimenticato e che, negli anni a venire avremmo continuato a desiderare con altrettanta golosità: le pittule. Dorate, calde, dall’aroma inconfondibile di ‘pasta lievitata’ e fritta, dalla forma rotondeggiante, mai uguali l’una all’altra; durante la cottura nell’olio fumante, infatti, assumevano contorni strani e sembianze tra le più fantasiose e improbabili. Ci si divertiva ad immaginare in quelle frittelle amorfe facce di animali, personaggi dei cartoni animati, somiglianze persino tra di noi, e si finiva col litigare su quale fosse la più bella. Un po’ come si fa guardando il cielo, scoprendo, tra le nuvole, figure animate e pupazzetti di batuffoli. Com’era bello!

E’ passato un po’ di tempo da quei giorni di festa e di piccole emozioni. Ma con l’avvicinarsi di questa data torna tutto, dentro, tra i respiri dei ricordi. Oggi siamo ancora ghiotti di quelle tradizioni, di quei profumi, di quelle prelibatezze, che, nonostante la diversità dei tempi, ancora riusciamo a gustare.

La vigilia continua a conservare il senso di una volta, ha perso un po’ di spessore, specie tra le nuove generazioni, ha smarrito forse, in parte, i tratti religiosi della sua esistenza, ma, mantiene ancora intatta la sua vitalità, soprattutto tra le famiglie più legate alla tradizione.

La mattina del 7 di dicembre, ancora oggi, ci si alzerà per tempo a far la fila dal fornaio, si tireranno fuori dai cassetti le ricette unte e scolorite delle nonne, si dipingerà di farina ogni angolo della tavola, si arriverà a casa affamati in cerca del calore che solo quei sapori, sono capaci di restituirci.

E qualche bimbo, forse, ancora oggi, scriverà di fantasia la sua vigilia.


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