Vero come la finzione gioca, in effetti, col suo essere un prodotto da costruire e da smontare, un oggetto su cui lavorare, dalla genesi all’atto interpretativo. È per questo che l’autrice (Emma Thompson) viene aiutata da un editor (Queen Latifah) nel seguire le vicende di Harold (Will Ferrell) e, in seguito, seguita da un eccentrico professore di teoria letteraria (Dustin Hoffman). L’effetto si riversa sulla vita di cui si parla, che si mostra per quello che è: qualcosa su cui lavorare, per andare avanti, per comprenderla.
È con l’incontro di Harold con la sensuale Ana Pascal (Maggie Gillenhall) che si ha il polso della situazione: la vita non è un fenomeno che si esaurisca nelle vicende biologiche di chi vagabonda con le sue cellule e il suo passato, ma una vicenda che riguarda un intero mondo affettivo, fatto di rinunce, di sogni improvvisi e di subitanei compromessi con una qualche prossima disfatta.
La vita dipende da me che scelgo di viverla e da tutto ciò che la determina, ma non è come la si sceglie o come la si voleva. Non c’è progetto che possa trasformarla in un’opera d’arte, perché l’opera d’arte è il frutto di una società che investe sul significato da attribuirle e sul futuro a cui destinarla. Mi pare che il film ambisca anche a insegnare che le rinunce non sono mai definitive e che, se anche non lo si trova, ha senso cercare un senso per tutto ciò che ci circonda, correre fuori verso il mondo e la propria vita, così come sarà. E che la vita è tutta quella davanti a noi, molto oltre i confini che possiamo raggiungere.