La vita di Adele – Abdellatif Kechiche

Creato il 25 marzo 2014 da Amalia Temperini @kealia81

Ieri sera ho visto il film di Abdellatif Kechiche, La vita di Adele.

Mi limiterò a scrivere quanto di più concreto possa esserci, poiché ritengo che buona parte del lavoro sia una forzatura strozzata su uno studio dedicato all’esistenza umana, racchiusa in una farsa giovanilistica costruita a mozziconi bruciacchiati e spenti per paura di essere scoperti dalla mamma in una fase nevrastenica della propria vita.

Non so quanti di voi lo abbiamo visto. Di sicuro qualcuno perplesso ci sarà. Quello che rimane di questa storia confusa, assente, straniante e non identificativa è il nitrito impellente di quei quattro maschi arrapati e nascosti in una sala cinematografica non pienissima, accecati dal potere di due fighe che copulano senza passare attraverso i filtri virtuali di lobstertube o youporn, in più scene, per tutta la durata del film.

La trama è incentrata sul senso di vuoto provato da Adele, una ragazza di 18 – 19 anni che si appresta a conoscere la sua identità, un po’ troppo tardi rispetto alla media dei ragazzi dei nostri giorni. E’ una donna con una grande confusione in testa, che ha una famiglia annoiata, e che ha con un ragazzo che vorrebbe amarla nel senso più puro del termine, ma che lei silura nel giro di poche battute.

Forse sono un po’ troppo frettolosa nel giudizio, ma la produzione, seppur abbia vinto Cannes 2013, non dona a intensità e nessun tipo di trasporto.

Mi rendo conto sempre più di quanto il cinema francese contemporaneo stia generando alle mie posizioni personali noie su noie. I silenzi, il trancio netto delle scene, i collegamenti che bisogna fare per riempire tutti gli spazi temporali lasciati dai registi, mi lasciano troppo perplessa, non convincendomi affatto.

Di questo, poi, non c’è evoluzione e comprensione nella dimensione che voglia prendere la sceneggiatura. Mi rimane difficile stabilire se si tratta di una critica alle posizioni della società, alla élite culturali, al ruolo del sistema arte, oppure se c’è altro: una sfida alla semplicità o alla rassegnazione sul proprio vissuto.

Non basta imbandire una tavola ricca di riferimenti senza sceglierne uno netto, che sappia guidare il punto di vista. Sembra fare surf su una tavola di compensato. E questo lavoro, sebbene abbia fatto scalpore per la rilevanza saffica in vista per troppi minuti, non ha niente, non appone elementi positivi al superamento di certe criticità in merito alla lotta che portano avanti gli omosessuali nel riconoscimento e nella tutela della propria appartenenza di genere.

C’entra Sartre? In che modo?

È citato il suo testo L’esistenzialismo è un umanismo e mi sembra di capire che la lettura debba partire da qui, e che buona parte della giuria, nel momento in cui ha assegnato il premio, sia stata convinto da uno di questi rimandi.

Mi chiedo però se sia giusto lasciare il pubblico così in sospeso. Non mi ritengo una cretina qualunque, non una di quelle che passano la vita a chiedersi chi e cosa ci sia dietro il significato del film di Sorrentino, La grande bellezza, o a polemizzare sulla futura uscita del progetto di Lars Von Trier, Nymphomaniac, ma sono sicura che su questi ultimi due progetti il simbolismo scenico abbia una presa di posizione che ponga lo spettatore in una chiave precisa nella interpretazione del lavoro.

In La vita di Adele non c’è una messa in crisi costruttiva, non c’è evoluzione del personaggio, non c’è rassegnazione. Esiste solo un’immobilità in entrata e in uscita che si sviluppa in due piani di ripresa che danzano tra posizioni oniriche, non approfondite, e scorci di realtà con riprese fatte a mano confusamente su inquadrature precise (la bocca, il modo di mangiare, dormire e nuotare).

Il secondo personaggio, quello funzionale alla figura della protagonista, è Emma. L’artista fricchettona che si dedica amaramente alla purezza di questa ragazzetta, troppo lontana dalla semplicità di un mondo normale, arrabbiata sul fatto che alcuni collezionisti potrebbero considerarla o no nel giro.

Tutto l’infinito culturale che sarebbe potuto nascere da questa pellicola rimane fossilizzato in nicchie racchiuse in classi di controllo delle quali io mi sono rotta solo le scatole.

Lo consiglio, ma solo per incazzarvi e trovare, assieme a me, una ragione alle mille tonalità di blu presenti.

 


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