“La vita di Adele”: amore e carne nella pellicola di Kechiche

Creato il 28 ottobre 2013 da Onesto_e_spietato @OnestoeSpietato

Alla domanda “Come stai?”, nella prima parte del film, Adele schiva la risposta con un “E tu?”. È ancora una bambina, non sa bene cosa prova, cosa vuole, chi è. Lascia la domanda insoluta come in attesa di una svolta che possa permetterle di rispondere con pienezza. Alla fine del film, tra quadri che la ritraggono nuda e divina e un bicchiere di champagne mandato giù a singhiozzo, a Salim che le pone la stessa domanda risponde “Bene!”. Adele ora è una donna che conosce se stessa dopo aver attraversato il paradiso e l’inferno di un amore indimenticabile e doloroso. La sua personale storia di formazione è compiuta, il cerchio è chiuso. Struttura filmica circolare palesata anche dalle sequenze d’apertura e di chiusura: nella prima, Adele, ancora liceale, esce di casa di fretta, arruffata, e sculettando si strattona su i jeans come a voler mettere bene in vista, ma con un gesto mascolino, le proprie forme, e poi corre a perdifiato verso un bus che ogni mattina rischia di perdere; nella seconda, Adele, borsetta sotto braccio, se ne va di spalle lungo un marciapiede infinito, come una donna con tutta la vita davanti, cosciente della propria sensualità, e non porta più i pantaloni ma una gonna corta che mostra tutta la sua, seppur omosessuale, femminilità.

La vita di Adele di Abdellatif Kechiche, Palma d’Oro all’ultimo festival di Cannes, è una pregevole parabola sullo sviluppo dell’indole sessuale che, in Adele come in ciascuno di noi, è spartiacque fra l’adolescenza e l’età adulta. La crescita fisica, estetica, caratteriale e psicologica della protagonista scorrono sul grande schermo con ineffabile naturalezza, coinvolgendoci come raramente capita al cinema. Il primo amore e i primi approcci, l’invaghimento e la gelosia, l’errore e il perdono s’inseguono e susseguono in una love story lesbo dal valore universale. E’ la vie, d’Adèle, ma è la vie.

Il regista di Venere nera punta con spudoratezza e poesia la macchina da presa sui suoi personaggi, sui loro volti e corpi, fino ad indagare l’emozione nascosta dietro la pieghe di un sorriso, l’estasi di uno sguardo innamorato, la piccola crepa di un morso sulle labbra. Kechiche va sotto pelle e tira fuori l’incommensurabilità dei sentimenti umani. Primissimi piani in abbondanza per Adèle Exarchopoulos, guanciotte paffute e denti da coniglietto, occhioni da cerbiatto e bocca pronunciata. Un personaggio tenerissimo, del quale ci si può solo innamorare, impersonato da un’attrice che, a soli 19 anni, sprigiona una spontaneità recitativa che a più riprese commuove. Lacrime a dirotto e rigagnoli di moccio dal naso si mischiano in una prova dolce e salata che lascia senza parole. Al suo fianco Léa Seydoux, angelo ribelle dai capelli blu, un po’ macchietta manga un po’ David Bowie al femminile, in una prova attoriale più eterea della compagna ma altrettanto sentita, che sa condividere il palco con Adèle senza rubarle il primo piano e gli applausi.

L’occhio di Kechiche rimane sentimentale e anche l’ormai famosa, polemizzata e lunga scena di sesso tra Adele e Emma non crea scandalo. Certo è da bollino rosso, Kechiche non sconta niente in merito a particolari intimi. Ma nella violenza intrinseca dell’amplesso non c’è ombra di morbosità, ma solo l’evidenza di un sano sentimento d’amore che desidera d’essere consumato con voracità, proprio come Adele s’ingozza dei prelibati spaghetti alla bolognese del papà.

Ma a ben vedere La vita di Adele è un’opera d’arte totale. Kechiche guarda alla letteratura, alla pittura, alla scultura, al cinema degli anni Venti. La scoperta dell’amore e del sesso per Adele avvengono come per quella Marianne la cui vie viene raccontata in un celebre romanzo di Marivaux. La fisicità delle due protagoniste è limpida e delicata come quella di marmoree statue da museo neoclassico, romantica e avvinghiata come quella posseduta dagli amanti di Klimt, mai scomposta o diabolica come nelle folli rappresentazioni di Egon Schiele. Ma c’è ampio spazio anche per citare e mostrare Lulu – Il vaso di pandora (1929) di Pabst, che, non a caso, raccontava anch’esso di una passione a dir poco tormentata.

Insomma, La vita di Adele è un grandissimo film, di quelli che si fanno ancor più belli nella nostra mente nei giorni successivi alla visione, che sa farsi ricordare per la completezza e la compiutezza resa on screen al sentimento amoroso. Raramente il cinema si è avvicinato così tanto alla realtà.

Voto: 9

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