- Anno: 2014
- Durata: 104'
- Distribuzione: ExitMedia
- Genere: Commedia
- Nazionalita: Spagna
- Regia: David Trueba
- Data di uscita: 08-October-2015
Per trovare un professore che non sia in crisi di ruolo, oggi, al cinema, bisogna andare indietro nel tempo, addirittura agli anni Sessanta, quando si poteva ancora sognare e sperare in un mondo migliore, a dispetto della dittatura che voleva spegnere spontaneità e innocenza. Siamo in Spagna negli anni Sessanta e Antonio (Javier Cámara) insegna inglese ai suoi alunni utilizzando le canzoni dei Beatles, mentre i suoi colleghi, imperterriti, prediligono le maniere spicce, come gli schiaffoni.
Il regista David Trueba ce lo mostra per poco in classe, ma la sua maniera di starci è così lieve e allo stesso tempo decisa da ricordarci il maestro di Philippe Falardeau nel film Mensieur Lazhar (2012). Qui siamo nelle campagne soleggiate della Spagna franchista e Lazhar lavora nei paesaggi innevati del Canada attuale, eppure condividono molto: la grazia, la gentilezza, la solitudine. Quella del professore meno dolente, quella del maestro profondamente sofferta. E non importa se, didatticamente, Antonio è un innovatore e Lazhar molto tradizionale: si somigliano nel coraggio di farsi carico, responsabilmente, dei problemi di bambini e adolescenti, consapevoli entrambi di quanto valga la relazione educativa. Finalmente! Siamo stanchi di vedere la scuola rappresentata al cinema e in televisione sempre allo stesso modo, con modelli che si ripetono in maniera avvilente.
Ci sono gli insegnanti disamorati e disincantati (tutti abbastanza in età, tipo Roberto Herlitzka ne Il rosso e il blu, e insieme a lui, tanti tanti altri) e quelli giovani o non ancora anziani che vogliono rivoluzionare la scuola. Come? É facile, basta riprenderli seduti sulla cattedra o su un banco o mentre si fanno gli affari degli studenti. Non nel senso di ascoltarli (come andrebbe fatto), ma proprio azzerando i confini, andando a casa loro, partecipando ad ogni problema, amoroso, familiare sentimentale, presentandosi come la soluzione di tutto quanto. Spesso però, almeno nella realtà, l’interesse di quegli insegnanti nasconde un forte bisogno di compensare il loro ego, un narcisismo sotteso che trova nella scena scolastica la sua soddisfazione. Tra di loro poi c’è chi non ottiene l’influenza positiva che si prefigge, se pure in buona fede. Nel cinema o nelle fiction invece sono i miti su cui si reggono tanti racconti scolastici dall’Attimo fuggente in poi, ma anche il prof. Keating, a ripensarci, di danni ne ha fatti, eccome (ora che sono passati venticinque anni possiamo dirlo) non rispettando i tempi e i modi di ciascuno nelle forzature del cambiamento.
Insomma, ben venga allora il prof. di David Trueba che restituisce all’immagine dell’insegnante quell’umiltà e quella benevolenza che sembravano perdute, a vantaggio di un protagonismo inutile e qualche volta deleterio. Non un eroe della cattedra, ma una persona normale, libera dallo stereotipo, che sa cogliere con naturalezza il bello nella quotidianità. Eppure, la prima e l’ultima parola che Antonio pronuncia nel film (citando la canzone dei Beatels) è “Help”, perché tutti abbiamo bisogno di aiuto: lui, i suoi studenti, lo stesso John Lennon, i due ragazzi che incontrerà per strada. “Tutti abbiamo bisogno prima o poi di gridare Help nella vita”, dichiara il nostro goffo e strampalato professore.
Inventa una bugia al direttore, come potrebbe fare un ragazzino, e parte per un viaggio, la cui meta, l’oggetto del desiderio, è lo stesso John, ora in Almeria per la sua parte nel film Come ho vinto la guerra. Ma, nonostante i modi poco cresciuti di Antonio, non si tratta di una ridicola pruderia adolescenziale. Deve proprio parlargli, seriamente; vuole chiarimenti su alcune parole dei testi, quelli che lui ha tradotto a modo suo, e quelli che non è riuscito a tradurre; inoltre vuole chiedergli come mai le canzoni non vengono stampate insieme ai dischi per facilitarne la comprensione.
Lo spunto del film è la storia vera del professore universitario d’inglese Juan Carrión, che avrebbe davvero incontrato John Lennon nel 1966 con le stesse richieste. Pare che da allora in poi i Beatles abbiano accompagnato i loro LP con le trascrizioni dei testi, sempre.
Trueba ha scelto invece un professore di scuola, con gli occhialini e l’aria un po’ persa, e tutta la modestia del vestire e dell’atteggiamento. Il percorso da casa al cospetto di John non è semplice, ma ad alleggerirlo e condividerlo ci saranno con lui due ragazzi molto giovani che potrebbero essere suoi allievi: Belèn (Natalia de Molina) e Juanjo (Francesc Colomer), entrambi in fuga. La prima, da un istituto assurdo in cui è stata rinchiusa perché incinta, il secondo dal padre-padrone che non accetta nulla di lui, soprattutto i capelli lunghi.
Un viaggio più che mai di consapevolezza, il loro. “Cercavano John Lennon, trovarono se stessi” si legge in sovrimpressione sul trailer. Il franchismo non è rappresentato in maniera insistita, ma incombe sui personaggi, che appaiono bloccati nelle loro scelte, soprattutto i più giovani. Non è che il professore sia esemplare per la sua sicurezza! Tutt’altro! Lo diventa nella caparbietà con cui insegue il suo sogno, nella generosità con cui sa ascoltare i suoi compagni, nell’affiatamento e affetto che sa generare all’interno del gruppo. Entra ed esce con facilità dal ruolo di adulto; stordisce con le sue chiacchiere, ma sa tacere nei momenti di maggiore tenerezza; raccoglie con sincerità le confidenze dei ragazzi che si fidano e gli si affidano, mentre cerca di aprire loro gli occhi sul mondo.
La vita è facile ad occhi chiusi è un titolo altamente metaforico. Tratto dall’incipit del testo di Strawberry Fields Forever (scritta da Lennon in quelle stesse settimane in Almeria, dove abbondano i campi di fragole), vuole essere proprio un invito ad aprirli, gli occhi, a vivere in modo più attento nei confronti di sé e degli altri, conservando religiosamente il puer aeternus che è in ciascuno di noi, dandogli diritto di cittadinanza, senza fargli prendere il sopravvento. Un po’ come diceva Bruno Munari: “Conservare lo spirito dell’infanzia dentro di sé per tutta la vita vuol dire conservare la curiosità di conoscere, il piacere di capire, la voglia di comunicare”.
Margherita Fratantonio