Tutto cominciò il giorno in cui G. mise davanti a me e a V. due libri finalisti del Premio Strega (quello di Catozzella e quello appunto di Pecoraro) e ci disse: “decidete tra voi quale prendervi”. Data una rapida occhiata alla quarta di copertina entrambe volevamo quello di Pecoraro, fino a che – dopo un po’ di simpatico battibecco – la più mite V. si risolse a prendere quello di Catozzella (che poi ha vinto il Premio Strega Giovani e che alla fine pare le sia piaciuto molto).
Io ci ho messo un po’ di più a decidermi a prendere in mano questo voluminoso libro, ma alla fine – grazie alla vacanza in bicicletta – l’ho divorato in meno di una decina di giorni.
Solo quando stavo ormai per concluderne la lettura mi sono accorta che il romanzo di Pecoraro ha suscitato un acceso dibattito. Molti critici l’hanno accolto con grande favore, qualcuno ha gridato al capolavoro, ma non sono ovviamente mancate neppure le voci critiche (si veda a titolo esemplificativo qui e qui).
E tutto sommato è stato meglio evitare qualunque tipo di condizionamento. Perché a leggere certe critiche coltissime e capaci di fare appello all’intera storia della letteratura per spiegare il fenomeno Pecoraro avrei poi avuto delle difficoltà a formulare i miei pensieri certamente troppo semplici e banali in merito al volume.
Il primo impatto con questo romanzo non è stato affatto facile; l’ho trovato infatti fortemente respingente dal punto di vista stilistico, cosicché prima di poter seriamente concentrarmi sui contenuti ho dovuto superare un certo fastidio per lo stile. Un uso sovrabbondante di puntini di sospensione, il vezzo di utilizzare in certi casi la & commerciale per unire due concetti, o addirittura la et latina, la presenza di un numero esagerato di maiuscole legato anche alla scelta di non nominare persone o luoghi che in qualche modo si configurino come istituzioni con i loro nomi propri ma con il termine astratto in maiuscolo (Padre, Madre, Città di Dio, Sorella Grande, Storia del Mondo, Peccato Mortale, Città di Mare ecc.).
Una volta accettate – seppure non di buon grado – queste scelte stilistiche, finalmente mi sono fatta trascinare nell’universo profondamente nichilista di Pecoraro. La struttura narrativa del romanzo è accattivante: esso racconta infatti una giornata decisiva della vita di Ivo Brandani (il protagonista ormai quasi settantenne) all’aeroporto di Sharm El-Shaik, in attesa dell’aereo che lo riporterà a Roma. Questa giornata scandita in capitoli i cui titoli fanno riferimento all’ora da cui il racconto riprende è inframmezzata da altri capitoli che raccontano – senza alcun rispetto per l’ordine cronologico – fasi, episodi, situazioni passate della vita di Ivo che a poco a poco ci consentono di farci un’idea di questo personaggio e di ricostruire il puzzle della sua esistenza, senza riuscire veramente a completarlo del tutto.
Sul piano narrativo mi è tornata alla mente La versione di Barney, un flusso di pensieri, di ricordi, di coscienza che inonda le pagine del volume. Rispetto al personaggio di Richler, però, quello di Pecoraro manca di quell’ironia, di quell’approccio scanzonato alla vita che ne illumina anche le pagine più tristi e si prende gioco del politicamente corretto.
La “versione” di Ivo è profondamente cupa, senza via d’uscita per sé, per la società, per l’universo intero, tutti “inesorabilmente” (come Ivo ripete in continuazione quando da ragazzino scopre il significato di questa parola) destinati al declino, alla sconfitta, se non addirittura alla catastrofe.
Ivo è un perdente, sia che provi a ribellarsi al suo destino e ad affrontare le avversità finendone schiacciato e sopraffatto, sia che ne assecondi il flusso rimanendone travolto. Ma la sconfitta di Ivo non è altro che la sconfitta di un’intera generazione che non ha avuto una guerra da combattere e che è cresciuta immatura e contraddittoria. E forse è la sconfitta dell’umanità intera che ha fatto scempio della bellezza, della natura, dell’ordine naturale delle cose nel nome della ricchezza e di un presunto progresso.
In questo percorso di autodistruzione, di cui – come Ivo si rammarica – la sua generazione non vedrà neppure la conclusione, ma solo un logorarsi più o meno rapido del mondo circostante, una parte significativa l’ha svolto il pretestuoso tentativo di dare un significato politico e filosofico alle azioni personali e collettive.
Il racconto degli anni dell’università in pieno Sessantotto richiama alla mente certe pagine del volume vincitore dello Strega, Il desiderio di essere come tutti di Francesco Piccolo, contiene certe stesse componenti di critica e di autocritica relative a una stagione che ha segnato tale generazione. Ma mentre Piccolo tratteggia la possibilità di chiudere con un certo passato e di superare lo snobismo e l’autoreferenzialità di certe forme di pensiero, Pecoraro attraverso Ivo Brandani non lascia spazio ad alcuna illusione, mettendo in connessione i fallimenti di una stagione, di un gruppo di persone, di un certo approccio ideologico con l’immutabilità e la ripetitività della natura umana che in qualche modo produce inevitabilmente determinati esiti nefasti, che si accumulano l’uno sull’altro in una folle corsa verso il baratro.
L’Estate come utopia piuttosto che come stagione - cui Ivo si aggrappa fin da piccolo sperando nella possibilità di un’esistenza alternativa - è solo una parentesi che sta lì a ricordarci che tutto ha una fine.
Un libro potente quello di Pecoraro, illuminante in alcuni passaggi, certamente meno consolatorio di quello di Piccolo, ma assolutamente sconsigliato a chi ha bisogno di un po’ di ottimismo e di speranza per continuare a dare un senso al proprio agire quotidiano.
Voto: 3,5/5