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La vita non è un fumetto, baby. Firmato Munoz e Sampayo

Creato il 05 gennaio 2012 da Lospaziobianco.it @lospaziobianco

La vita non è un fumetto, baby. Firmato Munoz e Sampayo   Vittorio Giardino Solano Lopez Moebius Lorenzo Mattotti Josè Munoz Hugo Pratt Carlos Sampayo La vita non è un fumetto, baby. Firmato Munoz e Sampayo   Vittorio Giardino Solano Lopez Moebius Lorenzo Mattotti Josè Munoz Hugo Pratt Carlos Sampayo

Nel panorama piuttosto effervescente del fumetto italiano a metà degli anni ’70, forse non tutti si sono resi conto dell’importanza dell’evento Alack Sinner. Ricordo che si fece notare il detective che faceva pipì in diretta nella prima pagina della seconda delle sue avventure; una tale esplicita crudezza, seppure consueta nei romanzi hard-boiled, non era ancora d’abitudine nei fumetti che pure ad essi si ispiravano.

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Ma la marcia in più dell’opera forse non fu subito “digerita” da lettori e critica; forse perché le caratteristiche dichiarate di poliziesco ci misero un po’ a rivelarsi solo il supporto di ben più complessi percorsi tematici, assolutamente all’avanguardia all’epoca.
Che ci abbia gabbato il “nome in ditta” di due autori, quando sempre più ci stavamo abituando ad un fumetto di qualità frutto di una sola mente creativa (non a caso a lungo definito “d’autore”)?
Che potevamo sapere della potente sinergia tra Muñoz e Sampayo, tale da renderli allora e per sempre una splendida macchina narrativa?

Ricordo che i due erano venuti via dall’Argentina (appena in tempo, direi), e qui in Europa si erano conosciuti. Per quanto possa sembrare una questione di lana caprina, viene da chiedersi se Alack Sinner possa essere considerato un fumetto argentino o europeo. Certo la formazione degli autori è inequivocabile (non dimentichiamo che Josè Muñoz veniva dalla scuola di Alberto Breccia e , che aveva lavorato con e con Oesterheld, e solo queste frequentazioni basterebbero a collocarti nel walhalla del fumetto mondiale), come diverrà negli anni successivi inequivocabile l’importanza della scuola argentina (e della figura di Oesterheld in particolare) nel panorama del fumetto moderno. Ciononostante viene da chiedersi, al di là dell’occasione di conoscere Carlos Sampayo, se l’Europa non abbia dato anch’essa qualcosa di fondamentale alla formazione dell’opera artistica di Josè Muñoz.

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Erano anni, lo dicevo sopra, di fermento, di cambiamento; il fumetto underground americano aveva lanciato un seme che prestissimo sarebbe stato raccolto dagli Humanoides in Francia e dalle avanguardie italiane di Frigidaire e Valvoline. Il clima era quello, mai dimenticato, delle riviste a fumetti, in cui si affacciavano autori come Vittorio Giardino e Andrea Pazienza dei quali un popolo di lettori curiosi, aperti, decretava il successo. Viene comunque da chiedersi come sarebbe andata se i nostri argentini non avessero trovato una situazione simile, perché non ce li vedo a lavorare a Tex.

Il lavoro di “destrutturazione” del giallo continuerà con Viet Blues e La vita non è un fumetto, baby, in cui gli autori introdurranno decise prese di posizione su politica internazionale e razzismo con un escamotage narrativo di tutto rispetto e all’epoca veramente nuovo: presentare se stessi, gli autori, come comprimari della vicenda, aprendo ad una metanarrazione che indaga sul rapporto tra realtà e racconto.

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A questo punto è ormai chiaro a tutti che Muñoz e Sampayo non sono interessati a produrre facile, realizzando come la maggior parte degli autori pur brillanti dell’epoca, opere consolatorie e in linea con le aspettative del lettore. E’ singolare che abbiano scelto proprio il giallo per avviare quest’esperienza, genere per definizione strutturato rigidamente e improntato necessariamente verso una definizione della crisi, quando invece è proprio nelle crisi insolubili (politiche, psicologiche, esistenziali) l’interesse principale degli autori. Cosicché quando il detective Sinner risolve un caso, non abbiamo l’impressione che abbia risolto granché, e la sensazione è di trovarsi, più che in un romanzo di McBain in un libro di Durrermatt.

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E dopo Sinner le sue deviazioni, Nel bar e Sophie, quindi Sudor Sudaca, Giochi di Luce, Billie Holiday… il tratto di Josè Muñoz sembra involvere (se lo si considera “solo” disegno e non parte di un meccanismo narrativo complesso), mentre persegue con Sampayo una narrazione sempre meno cinematografica e più fumettistica(anche se l’amore per il cinema, come quello per la musica, rimarranno a caratterizzare la loro opera). E’ il caso del recente Gardel (edito da Nuages), opera suggestiva, particolare narrazione che è al contempo discorso sull’essenza stessa del mito.
E’ difficile da spiegare, ma una narrazione di questo livello, che modifica drasticamente l’uso dei testi (sempre meno didascalie e sempre più voci, brontolio d’ambiente, sbraitare di comparse) richiede sempre più forte la recitazione degli attori, e i personaggi di Muñoz diventano le particolari maschere che conosciamo. Muñoz, che già disegnava sul volto di ognuno i tratti evidenti del tempo, del dolore, del sudore, della fatica di vivere, sembra partecipare talmente nel disegno agli stati d’animo dei suoi attori da rendere le sue storie veramente recitate.
Una maestria acquisita insieme a un lavoro di ricerca continua sul segno, a caccia di una composizione (della singola vignetta o della pagina) che mette tratti o macchie nere dove sembra facciano più male, dove tu non li metteresti mai, dove non te li aspetti. Da questo punto di vista rinuncia definitivamente a essere popolare, pretendendo uno sforzo dal lettore che forse oggi i lettori non fanno più. Se ci hanno insegnato che nella composizione visiva, ancorché in modo non banale, comunque si persegue un equilibrio, Muñoz sembra negarlo, camminando sul filo senza cadere ma sbilanciandosi continuamente.

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Figlio di nessuno, nonostante i grandi maestri frequentati, Muñoz non sembra appartenere ad alcuna scuola classificabile (e anche questo in termini commerciali non giova), né averne generate, anche se molti autori giovani non omologati non nascondono di essersi formati su di lui.

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E se altri grandi artisti emersi negli stessi anni (come Moebius o Mattotti), hanno avuto imitatori a iosa , di Muñoz o ci sfugge la strategia visiva, se ce n’è una, ovvero non ne avremo mai l’istinto compositivo. Solo nei primi anni novanta il disegnatore americano Keith Giffen e l’inchiostratore Dave Hunt produssero una miniserie supereroistica, protagonista il Dr.Fate, ispirandosi decisamente al segno di Muñoz. Ne uscì un successo editoriale e l’acclamazione di giovani fans, che non avevano mai visto nulla del genere.

Muñoz e Sampayo non sembrarono prendersela più di tanto, ma ci fecero su una nuova storia…

 


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