Credo che, se avesse potuto, Nove avrebbe usato la forma poetica integrale per quest’opera. Non lo ha fatto, credo se lo rimproveri anche lui e credo anche di sapere perché, dopo aver letto questa intervista.
È un vero peccato, perché le frasi vive e vibranti di La vita oscena sono quelle in versi, e naturalmente il capitolo 18 che è un dichiarato omaggio a Whitman e che fa da ponte tra la prima metà del romanzo, quella “zombie” diciamo, e la seconda, quella porno.
Laddove la prima è dolente e coinvolgente, la seconda invece noiosa e volutamente ripetitiva come tutta la pornografia, forse più della media perché ormai è difficile trovare fantasia nel settore, non è che uno può inventarsi chissà cosa, e come scriveva Sandro Veronesi qualche tempo fa su Repubblica, l’atto in sé è quanto di meno interessante, se lo scrittore non cerca di rendere interessanti i protagonisti.
Ma a Nove (altra intervista) interessava usarla per focalizzare altre tematiche:
«Il limite è la scoperta che per quanto tu possa scendere in basso, non troverai niente. Ma per capirlo devi attraversare la palude di putredine, come diceva Sanguineti. Per scrivere questo libro, per diventare grande, ho dovuto attraversare tutti i fantasmi del mio lutto, decifrarli, capirli, viverli. Per tutta la vita, non facciamo altro che tentare di soffocare i nostri fantasmi. Il più serio dei quali è il fantasma dell'altro, lo straniero. Ma se non li combatti, finisci per diventare tu il fantasma di te stesso».
Che altro dire? Ha avuto coraggio dal punto di vista personale, meno (probabilmente per motivazioni editoriali) da quello letterario. Resta, comunque, un esperimento alla frontiera tra narrativa e poesia, e di questo gli va dato atto.
Chapeau.