Claudio Pagelli, La vocazione della balena, Prefazione di Guido Oldani, L’arcolaio, Forlì, 2015.
Recensione di Lorenzo Spurio
La stravaganza del titolo è ancor più amplificata se si prende in considerazione l’immagine di copertina che non sembra minimamente addirsi né legarsi, appunto, al titolo del libro. In essa notiamo, in un effetto chiaroscurale tipico del bianco e nero, uno scorcio di una città ritratta nel dinamismo di un tranvia in movimento, sembrerebbe di notte dato che il faro centrale promana una luce che intuiamo accecante e che nella bicromia dei toni è reso con un bianco sfolgorante. È, dunque, l’immagine di una frenesia abitudinale, quella della città con i suoi transiti, passaggi, movimenti di sorta, incroci di vie di comunicazione, percorsi e tragitti. Niente a che vedere con la balena o, comunque, con uno scenario in qualche modo naturalistico.
Contenutisticamente il libro è formato da alcune micro-sillogi che hanno una significazione autentica e un’autonomia in sé di completezza: si apre il percorso poetico di Pagelli con la modesta compagine di liriche che fanno parte dell’aggruppamento “L’inferno di Chisciotte” per passare poi al secondo nucleo tematico (a mio avviso il più importante) denominato “Bestiario d’ufficio”; seguono poi altre partizioni interessanti del volume che vanno sotto i titoli tutt’altro che archetipi di “Caffè in sette quarti”, “Burattini” e, a chiudere, con grande impazienza del persuaso lettore, “La balena bovisa”.
La poetica del Nostro si caratterizza per un postmoderno coinvolgimento nelle immagini, una vitalità empirica e roboante del mondo, ma anche una velata organicità di fondo nutrita da senso critico, chiaroveggenza, senso di compartecipazione assai intimo con l’altro, forza caratteriale vorticosa e lucidità espressiva oltremodo evocativa. Non è un caso che il Nostro ricorra a Guido Oldani che, non solo ha prefato il testo, ma è citato pure in esergo in una delle tre citazioni d’apertura. L’eclettismo di Oldani, convinto assertore di una tendenza artistica definibile nei termini del realismo terminale, sembra in qualche maniera aver permeato con originalità ed esuberanza la penna di Pagelli, la sua cifra letteraria e soprattutto la tendenza lirica di costruzione dei componimenti.
Costrutti semantici di rilevante pregnanza (lo intuiamo dalla ricorrenza con la quale si presentano durante la lettura delle varie poesie) sono quelle che fanno riferimento alle immagini-simbolo del tatuaggio (la lirica d’apertura è proprio così intitolata, nell’inflessione plurale del termine) e all’imprevedibilità degli accostamenti tanto da derivarne spesso forme ossimoriche nonché elementi enigmatici o talmente assurdi da sfiorare il paradosso. Si tratta comunque e sempre di espressioni assai particolareggiate che il Pagelli utilizza per la descrizione minuziosa di una data realtà oggettiva trasfigurando il concreto (il visibile, l’esperibile) in una superfetazione ambigua nonché curiosa in chiave lirica, così come le cuffie del logorante lavoro di call-center che diventano in chiave di similitudine assai ricercata delle “meduse leggere” (15).
Importante e rivelatrice la presenza di elementi e figurazioni che richiamano il campo teatrale; nella poesia “il taccuino” il Nostro non manca di osservare una società abbruttita e caricaturale con “maschere tutte uguali” (16) dove sono la reiterazione e l’inautenticità degli atteggiamenti a dominare (si parla della “seta della finzione”, 16). Costrutti assai particolari che chiamano il lettore a riflettere su questi avvicinamenti sfuggenti e a tratti amari di sostantivi che il Nostro impiega sembrerebbe con un monito di rivalsa alla assuefazione di un mondo tanto banale. L’impressione è quella di una velata critica sociale, sebbene Pagelli eviti sempre di puntare il dito in maniera chiara verso determinate categorie della società o situazioni in particolare. Se da una parte l’intento del Nostro è raggiunto sulle basi di una poesia che effettivamente ha il potere di suggestionare, al contempo ci chiediamo quale realmente sia l’obiettivo del poeta nel dipingere il mondo di fuori a tinte fosche, facendone risaltare mancanze, incongruità e ambivalenze stridenti.
Ci sono avvisaglie di un disagio giovanile che il Pagelli sembra in qualche maniera voler evocare, soprattutto nella lirica “il farmaco” ma anche in “terzo piano” dove l’explicit del testo poetico sembrerebbe stavolta abbastanza palese nella sua finalità comunicativa quando asserisce, in una maniera che sembra essere l’epilogo di una vera e propria indagine, che “l’equilibrio è di carta” (19) ad intendere dunque che la vita dell’uomo non è altro che un grande foglio di carta. Essa va scritta, è vero, ma Pagelli ci ricorda che la carta, un po’ come la seta di un’altra lirica, è un materiale corruttibile, che vive in uno stato transitorio di calma e conservazione ma che, sottoposto a carichi, intemperie emozionali e imprevedibilità di sorta, è soggetto di continuo alla lacerazione e all’annullamento.
La silloge “Bestiario d’ufficio” chiarifica da subito l’intento, direi polemico ma assai efficace e ben proposto, del Nostro: quello di descrivere, come nella più antica tradizione greca delle Favole, le componenti sociali, i vari tipi di uomo per le loro attitudini e propensioni, a degli animali. Ne viene fuori un bestiario assai curioso che non ha nulla a che vedere con quelli del periodo medievale, sebbene le poesie del Nostro siano talmente chiare e ben delineate nella resa delle immagini da figurarci mentre leggiamo la resa iconica, il prospetto grafico, di ciò di cui parla.
Assistiamo così a una carrellata di uomini-animali che tanto ci richiama alla mente le bestie orwelliane ma anche gli animali in lotta tra loro nelle celebri Favole sciasciane. In questi componimenti Pagelli poeta sembra risaltare meglio che in ciascuna parte del libro in versi lucidi e fulgenti che ci parlano con una leggerezza che nasconde titubanza, della
“urticante indifferenza delle cose” (26), di una condizione di vera e propria spoliazione come avviene nella lirica “la coccinella” e della seduzione che va spesso a braccetto con l’avvenenza nella poesia dedicata alla pantera. Se il ragno bianco diviene espressione di una manipolazione studiata, di un pragmatismo logico improntato alla resa personale, è anche testamento di un’ipocrisia sociale che andrebbe depennata anche a beneficio di quei tanti polli che spesso vengono “sbranat[i] tutt[i], anche l’osso” (30) in una famelica scala alimentare dove il debole è anche il più sfortunato.
Nei “Caffè in sette quarti” è curiosa la costruzione dell’immagine temporale (sette quarti ossia un’ora ed un quarto) tanto che la minuscola plaquette non è che un tentativo di desacralizzazione della frenesia e del tempus fugit (in “quartina n.1” si legge all’apertura “tutto in fretta”, 35). Con questa chiave del tempo che corre si sposa l’amalgamante fluidità del verso del Nostro dove il linguaggio sembra farsi leggermente più condensato ed elegante, i versi si asciugano e divengono molto più sintetici proprio per sposarsi con quell’esigenza di dire quel che va detto nel minor spazio-tempo possibile. Particolare attenzione meritano la “quartina n. 3” e la “quartina n. 6”. Nella prima difficile non notare l’adozione di un sistema ritmico di tipo baciato che permette di recuperare una musicalità, seppur ridondante, forse leggermente appiattita in altri componimenti. Con l’immagine della Madonna di gesso Pagelli non ha nessun desiderio di immettersi in un canale religioso, né di affrontare speculazioni teologiche o liturgiche, piuttosto è l’immagine-impulso che motiva alcuni veloci ragionamenti. Dall’universale si passa, dunque, presto al sessuale, cioè dal celeste al meramente scatologico. Anche la religione, quale attaccamento personale e attività dell’uomo, nella società contemporanea finisce per dover sottostare al trantran velocistico di una mondo dove l’ipercinesi e l’iperattività impediscono la conquista e la conservazione di una situazione di tranquillità. La specificazione del materiale di cui è fatta la madonna, il gesso, è elemento in sé innocuo e vacuo ma al contempo rivelatore e dissacratorio a testimoniare la farraginosità e incompiutezza di ciò che esso rappresenta. Se l’autore avesse parlato di una madonna di bronzo l’immagine che ne avremmo ricevuto sarebbe stata quella di rigidità e forza, se avesse parlato di una madonna d’oro ne avremmo colto lo sfarzo e il lusso, ma il fatto che sia di gesso, costruita con materiali poveri, e particolarmente esposta agli attriti dall’ambiente ne fa una rappresentazione minimizzata, svilita, impoverita e in qualche modo anche depauperata dell’aura celeste. Ecco perché essa più che la rappresentazione di ciò che è si manifesta per il materiale di cui è fatta: non è altro che una suppellettile fragile posta da qualche parte, nolente abitatrice delle vicende degli altri, voyeur della frenesia sociale come pure di un impudico atto sessuale che può avvenire, come il raccoglimento in preghiera, sotto i suoi casti occhi.
La “quartina n. 6” parla della “fame feroce negli occhi” (40) che non è quella di qualche povero bambino affamato che vive in qualche recondito ambito del mondo, ma quella dell’uomo contemporaneo asservito alle spossanti logiche del consumo e della lotta per l’apparenza. Nella promozione che si anela, come pure nell’assunzione che si vive come utopia paludosa, ci si comporta con un atteggiamento falsamente agonistico con il prossimo dettato invece da profonda invidia, malcelata comprensione, inosservanza e spietata freddezza. L’interesse dell’oggi è spostato così non tanto nella conservazione e nella inaugurazione di rapporti sociali concreti, ma nell’accaparramento del bene (più o meno di lusso) funzionale alla creazione di una immagine di dominio nonché alla impavida rincorsa a un celebrativismo ridicolo quale è appunto “comprarsi quelle scarpe coi tacchi…” (40). I bisogni personali del singolo, ciò che economicamente potremmo definire come i beni primari, vengono spesso sedotti ed annichiliti, scavalcati, dall’ambizione, dalla lotta tra pari, dall’egocentrismo e dalla sprizzante velleità che fa del consumo e della mercificazione di tutto i capisaldi della dottrina amorale di cui respiriamo i vapori.
Approssimandoci alla plaquette successiva, “Burattini”, sembra allora possibile completare quel sistema di collegamenti e rimandi inaugurato con la silloge “Bestiario d’ufficio”, rintracciando sulla carta in maniera assai chiara i parallelismi tra animali viziati e persone perse nelle proprie ambizioni. Non è un caso che esse non siano più, in pratica, delle vere e proprie persone ossia fatte di carne ed ossa, ma piuttosto di legno, tanto da essere burattini, esseri inanimati che vivono solamente per mezzo dei movimenti indotti da qualcuno. La società, allora, sembra chiosare Pagelli, sembra avere nella nostra attualità proprio questa deformante e allarmante verità: quella di trasformare l’uomo in burattino, in un alieno privo di quella compagine ricca e nutrita di rapporti umani, emozionalità divampanti, carica empatica, comprensione di sé e del mondo, consapevolezza lucida volta a perseguire un atteggiamento attivo e conscio piuttosto che passivo e subalterno.
Tra le poesie presenti in questa raccolta lodevoli sono “l’attore”, doppiezza di ruoli in un unico corpo, colui che sa ridere in pubblico mentre piange internamente o colui che millanta, infastidisce, provoca, assurge a realtà altre, falsifica, si mimetizza o addirittura, come è lui in presa diretta ad asserire, “posso pure insultarti/ dire quello che penso e il suo rovescio” (46). Al sarcasmo costitutivo dell’attore che è un mentitore sagace segue la raffigurazione icastica e puntuale della “manager” della quale il Nostro dà alcune informazioni necessarie ad inquadrare la sua figura. Egli ci parla della sua “lingua svelta” (47) ma anche della sua disponibilità in termini sessuali che, in chiusa, la rendono “una cagna” (47). Il Nostro non manca di ravvisare come pure a certi livelli persista un sistema mafioso e marcio dove anche i rapporti occupazionali e lavorativi sono gravati dal ributtante sistema della mercificazione e del baratto sessuale, dell’intimidazione e del ricatto. La poesia “L’allenatore” fornisce l’ennesimo inganno e cattiveria che possono intaccare le giovani generazioni che, intimorite in qualche modo dal loro coach che pretende sempre il meglio nelle loro prestazioni, non è in grado di vedere i suoi ragazzi come persone che hanno bisogno di ascolto e vicinanza, magari pure amicizia, piuttosto che un mentore vanitoso e intransigente, prepotentemente sadico al punto di manifestare una chiaroveggenza schifosa se non seguono le sue direttive.
Ci approssimiamo, così, alla chiusa del volume, all’ultima plaquette, quella intitolata “La balena bovisa” che in qualche modo riallaccia i tanti fili lanciati dal Nostro nel corso del lavoro a tessere con sapienza e artificio un lavoro che è sicuramente ben congegnato, attentamente elaborato nell’adozione di una prosa pungentemente visiva, icastica ed istrionica al contempo, pregnante di realtà dure e cementata sulla sconfessione delle storture che cancrenizzano la società.
Nella poesia “il singhiozzo” Pagelli affronta in maniera alquanto atipica il tema del silenzio sostenendo che esso è assai più educato dell’indifferenza e di ogni altro rapporto umano che maschera un’assenza di qualche tipo. Meglio tacere che dire stupidità o tentare di dire il vero sprofondando, invece, nel pozzo senza scampo dall’ipocrisia. L’inquinamento acustico, allora, non è una vera contaminazione dell’aria dovuta alle onde sonore di macchinari e altri aggeggi umani, ma è piuttosto dovuta alla confusione di dialoghi, alla commistione di odi e rancori, all’imbarbarimento delle coscienze che ammorbano l’ecosistema facendolo precipitare in un antro tossico e dunque mal vivibile.
Anche il piccione che cerca un po’ di clemenza, la gratuita donazione di qualche insignificante briciola nella poesia “campus durando” finisce per farne le spese. L’inappropriata e scurrile bestemmia di una ragazza per un accadimento privo di rilevanza è talmente assordante da trasformare questa scena postmodernamente arcadica (il parco della città) in una gravosa discesa agli inferi (sotto la piazza). La tranquillità è spezzata e per sempre, l’oltraggio è stato commesso e la natura ne subisce le conseguenze. La morale (ma non è una vera morale perché Pagelli non intende insegnare niente, piuttosto far riflettere) è che ci si arrabbia troppo facilmente e per tutto e che le reazioni sono sempre spropositate, ci si infiamma e si agisce con impulso ed avventatamente senza percepire mentalmente che le azioni a un dato episodio accaduto possono essere ulteriormente peggiorative per lo stesso nonché per la nostra salute. Viene da chiedersi allora, nella poesia appena richiamata, il vero animale è il piccione che geneticamente e con l’atavica fame che lo caratterizza è portato a beccare attorno ai nostri piedi alla disperata ricerca di qualcosa da mettere nel gozzo o è proprio la ragazza che dell’animale ha in effetti assorbito le sembianze con le quali convenzionalmente distinguiamo tra bestialità ed umanità? Pagelli mi pare di capire che pone questo quesito ed altri, in parti simili, su altrettante questioni di vitale importanza e di fresca attualità.
La dentatura pericolosissima della balena della Bovisa che chiude la raccolta tra inquietudini, ripensamenti e perplessità non è altro che la maestosa scalinata della stazione Centrale di Milano. Entrare nella frenesia di un punto nevralgico quale è la stazione milanese è allora sinonimo di immettersi in una foga comunicativa dove è la cacofonia a dominare, la calca fastidiosa, lo struscio spersonalizzante, l’annebbiamento della vista, l’inasprimento della malinconia del luogo che si lascia. Tra qualche signora che ha appena terminato di fare shopping in costosi negozi del centro, in un angolo dorme un barbone, nel disprezzo e l’incuranza dei più. La stazione è allora l’ampio stomaco di questa balena stanca e imbizzarrita, delusa e ammorbata che al suo interno ha appena trangugiato maldicenze, viltà, ipocrisie e i vizi in cui l’uomo, impareggiabile, è maestro. A livello psicanalitico il sogno di essere stato mangiato da una balena e di vivere nel suo ventre (mito di Giona, storia di Pinocchio) corrisponderebbe all’esigenza inconscia di prendersi un periodo di pausa, una sorta di ritiro momentaneo dal mondo, necessario per metter un freno al corso degli eventi, elaborare meglio un accadimento (come un lutto), prendere le distanze temporalmente dal mondo di fuori per approfondire il proprio microcosmo. Alla stasi fa seguito una rinascita e quindi l’isolamento negli antri dello stomaco del cetaceo è positivo perché a una finta morte (il trangugiamento) corrisponde poi la rinascita (la fuoriuscita dal suo ventre) come persona maggiormente assennata e pacificata. Il riferimento collodiano salta visibilmente alla mente (una delle sezioni del libro, oltretutto, e come già detto, è intitolata “Burattini”) ma alla disperazione per la scomparsa del genitore come avviene in Pinocchio, Pagelli ha adoperato con pertinenza una riattribuzione di significato: la profonda pancia della balena è la società nella quale viviamo, conca di mancanze e disattenzioni, voracità e rincorse sfegatate al potere, bramosie vergognose, ricatti indicibili. Tutti, a vario livello, ne siamo in qualche modo assuefatti “nel solito carnevale” (25) nel quale viviamo. Resta ben inteso a questo punto che “la vocazione della balena” non è altro che una metafora prelibata e ricca dell’esigenza stringente di non lasciarci fagocitare dalla macchina stritola-coscienze della contemporaneità accelerata.
Jesi, 11-12-2015