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La voce come corpo nel Giulio Cesare della Societas Raffaello Sanzio

Creato il 07 luglio 2015 da Wsf

Sono favole allucinate quelle presentate dal gruppo teatrale Societas Raffaello Sanzio. Immagini e parole orfane di storie, suoni sconvolgenti che plasmano l’atmosfera e corpi che ne deformano il senso. Attraverso i loro lavori il palco si trasforma in uno spazio magico in cui compaiono presenze a volte indecifrabili. Eppure per quanto questa compagnia teatrale generi talvolta sgomento e incomprensione da parte del pubblico più tradizionalista, non si può non affermare che essa sia tra le realtà artistiche italiane più interessanti, perché il loro apparato visivo e scenico coincide con filosofie e poetiche affascinanti e innovative. Qui di seguito introdurrò alcuni principi chiave (dato che per fare un quadro completo della situazione mi servirebbe un libro intero) presenti all’interno del Giulio Cesare, spettacolo del 1997 e ripreso nel 2014 con alcune modifiche.

Gli attori per la Societas Raffaello Sanzio non sono strumenti per trasferire significati o valori e non hanno nemmeno il compito di comunicare o rappresentare, essi sono corpi vivi in cui l’attore diviene testimonianza della propria carne.

A conferma di quanto appena detto, sulla scena del Giulio Cesare sfilano attori: mutilati, obesi, anoressici (come ad esempio Bruto e Cassio del secondo atto nella versione del 97) e malati; ossia corpi che grazie alla loro presenza fisica portano lo spettatore a considerare gli attori principalmente per la loro materialità e figura scenica piuttosto che per il loro ruolo o maschera teatrale, che nella Societas viene completamente annientato.

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Ph: Gabriele Pellegrini, 2001

Non è un caso che nello stesso spettacolo (versione originale) sia esibita una scritta che recita: ”Ceci n’est pas un acteur” e proprio con questa frase, di derivazione magrittiana, si intende sottolineare l’uscita e la negazione della tradizionale idea di teatro, per dare vita a un’indagine orientata verso i corpi ripresi nelle loro funzioni vitali e viscerali.

È dunque una poetica teatrale della scorporazione quella messa in scena dalla Societas Raffaello Sanzio, in molti dei loro lavori infatti i corpi attoriali non sono fotografati nella loro interezza, ma vengono sezionate e rese visibili soltanto alcune parti, utili per far dirottare lo sguardo dello spettatore verso specifiche particolarità e nel Giulio Cesare è la voce_parola a divenire protagonista.

Lo spettacolo inizia prendendo ispirazione dal testo shakespeariano ma successivamente si direziona verso l’analisi dell’oratoria ciceroniana; è uno studio profondo sul formarsi della parola che conduce nel luogo in cui nasce la voce. Sulla versione rimaneggiata vengono presentati due monologhi o “pezzi staccati” (come vengono denominati); il primo è un’orazione funebre a Giulio Cesare pronunciata da un attore laringectomizzato, già presente nel 97, ossia privo delle corde vocali, che interpreta Marcantonio. Il suono della sua voce proviene dal ventre ed esce tramite la stoma (un’apertura posta all’altezza della gola da cui passa anche il respiro) attraverso la respirazione esofagea il suo tono vocale subisce una mutilazione e di conseguenza crea parole interdette in cui però è percepibile il fattore carnale.

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Il secondo monologo è del personaggio denominato “…vskij”; il nome scelto non è casuale perché rimanda al padre fondatore della rivoluzione teatrale Novecentesca, ovvero Stanislavskij. L’attore comunica il suo testo, ma ad essere importante è, ancora una volta, non tanto il significato in sé ma la nascita del corpo voce che qui viene mostrato nella sua totale nudità. Infatti“…vskij” ha una telecamera nascosta in gola e subisce un’endoscopia che viene resa visibile al pubblico. Visualizzare su uno schermo le corde vocali in azione, è per la Societas un’esplorazione della retorica che si allontana dalle strutture ideologiche astratte e psicologiche per abbracciare la dimensione materica che si realizza nell’incontro con il carnale.

L’importanza del fattore vocale è ulteriormente evidenziato da una figura che inala elio: il gas respirato confonde il suo discorso, il senso diviene impercepibile, nell’aria vagano parole prive di forma.

Nel Giulio Cesare si assiste quindi al battesimo della parola e alla perforazione del corpo. L’esibizione del vibrare delle corde vocali e il formarsi di parole zoppicanti, alterate e distorte divengono gli elementi fondanti di questo dramma.

Corpi-voci incapaci di tessere discorsi comprensibili, parole disadattate in cui è demolito il significato per poter far “toccare” allo spettatore ogni angolazione, ogni frangia sonora; in questa introspezione vocale che coinvolge la natura phonètica della voce il suono viene intercettato in ogni suo grado spettrale.

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Ph: Luca Del Pia (versione 2014)

Chiara Guidi, fin dagli inizi della Societas Raffaello Sanzio, ha rivolto le sue ricerche verso lo studio della voce a-significante, della voce-phonè quindi come materia da plasmare tramite il suo spettro. È infatti dentro la concezione di molecolarizzazione del suono che si può inscrivere il suo lavoro. Si può dunque affermare che il Giulio Cesare è stato uno spettacolo apripista perché da esso è iniziata l’idea di voce come espressione di un determinato corpo.

Nel loro libro Epopea della polvere, Castellucci e Guidi ribadiscono quanto appena detto, scrivendo: “La parola ha lo stesso significato di un corpo, quindi anche la presenza, ma anche la meraviglia della carne“. In conclusione si può definire il Giulio Cesare come la registrazione e visione neutrale della genesi del suono, in cui vengono tracciate visioni auditive che trasportano lo spettatore in un’altra dimensione.

FONTI: R. Castellucci, C. Guidi, C. Castellucci (a cura di), Epopea della polvere Il teatro della Socìetas Raffaello Sanzio 1992-1999: Amleto, Masoch, Orestea, Giulio Cesare, Genesi. Ubulibri, Milano, 2001

Nausica Hanz


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