Quest’articolo nasce da una serie di coincidenze, altri articoli e un concetto, quello del golem, dell’altro da sé, e delle nostre reazioni a tale scoperta, che mi ha sempre affascinato.
Qualche giorno fa ho pubblicato Parallele, un pezzo che, per la sua brutale sincerità, in certi punti, ha fatto molto scalpore. Non in sede di commenti, ma mi è stato detto comunque, che certe cose che ho scritto hanno lasciato il segno.
Personalmente, e non solo io, sono restato affascinato dalla mia versione parallela di Terra 3, quel Germano preso dai suoi studi robotici, tanto da sacrificare a essi tutto il resto della propria vita sociale.
Non vi nascondo che, dal punto di vista squisitamente narrativo, anche se il concetto non brilla per originalità, sto pensando di sfruttare l’idea e il personaggio e farli rivivere, in qualche modo, nel romanzo distopico/cyberpunk al quale mi sto dedicando solo nei ritagli di tempo (il che significa molto, molto poco).
Ora, per caso, ieri, mi imbatto in quest’articolo su io9, che tratta della Uncanny Valley, la cosiddetta Zona Perturbante. E così, eccoci qui, a discuterne.
Cos’è la Zona Perturbante? In parole povere è un’ipotesi dello studioso di robotica Masahiro Mori che, osservando le interazioni tra robot antropomorfi e esseri umani, ha teorizzato che le risposte emotive umane nei confronti di un robot sono positive, piacevoli e coinvolgenti in proporzione al grado di realismo del robot antropomorfo. Ovvero, tanto più il robot risulta umano, tanto più ne siamo coinvolti emotivamente.
La seconda parte dell’ipotesi, però, prevede un’improvviso calo del coinvolgimento emotivo, fino alla vera e propria repulsione, ovvero la Zona Perturbante.
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Esemplare di Actroid
L’estremo realismo del simulacro, l’eccessiva somiglianza con l’essere umano produce, in sostanza, l’effetto opposto rispetto a quello mirato. Respinge anziché attrarre. Turba, fino a generare paura vera e propria.
Trattasi di una teoria definita pseudoscientifica, basata, prevalentemente, sull’osservazione delle interazioni tra esseri umani e robot, in special modo i cosiddetti Actroid, androidi il cui scopo è simulare l’atteggiamento umano, reazioni emotive, movimenti, dotati di un rivestimento al silicone e di un’estetica che tende alla perfezione. I risultati ottenuti sono, in ogni caso, impressionanti.
A giustificazione di questa ipotesi sono state prodotte molte spiegazioni, che potete trovare qui, che vanno dalla paura della morte, alla percezione dei difetti (del robot) quali impurità, a motivi religiosi, la solita diatriba sull’identità umana e la sostanza dell’intelligenza artificiale, se esistesse davvero. Sarebbe vera vista, quest’ultima? Esistenzialismo allo stato brado.
Per non parlare poi, della deriva squisitamente feticista, sempre relativa a robot, fembot (robot femminili) e silicone.
Evitando quest’ultimo argomento, che non è scopo dell’articolo, quello della Zona Perturbante, pur essendo ipotesi pseudoscientifica, quindi con nessuna prova certa a supporto, trovo che sia argomento affascinante. Soprattutto se, osservando il grafico, si nota che vengono presi in considerazione non solo i robot, ma qualunque altro simulacro raffigurante l’essere umano.
Ian Holm in "Alien" (1979) di Ridley Scott
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Inutile girarci intorno, l’altro, nell’accezione filosofica di altro da sé spaventa. Se non spaventa, causa comunque disagio. Pensateci, ogni qual volta state per conoscere una persona nuova, un disagio, anche minimo, lo provate sempre. A seconda che poi, questa persona, sia o meno in sintonia con voi, per credenze, argomenti trattati, persino per movenze, il disagio sparisce o s’aggrava, e voi deciderete se continuare a frequentarla, oppure no.
L’inquietudine che vi assale quando, rincasando, camminando in una strada deserta, scorgete la sagoma di un altro… ecco. Quindi, al di là della Zona Perturbante, è proprio il concetto dell’altro a perturbare.
E tuttavia, è pur vero che letteratura e cinema, e prima ancora la religione, hanno sfruttato proprio il concetto di simulacro per i propri fini, ben consapevoli che l’aspetto ingannevole, presuppone la rivelazione, la cosiddetta agnizione, tema della commedia, ma anche del dramma. L’agnizione è il riconoscimento. Di solito nelle commedie è il riconoscimento di una parentela nascosta, o ignorata, l’umile orfana viene riconosciuta figlia del Re. Ma il punto è che trattasi di interazione e riconoscimento.
Prendiamo la letteratura gotica, i fantasmi. Le apparizioni hanno forma umana. La forma umana, secondo l’ipotesi della Zona Perturbante, ci mette a nostro agio. Ciò che del fantasma spaventa, in effetti, è la rivelazione, l’agnizione, il riconoscere il fantasma per ciò che è, qualcosa di simile, ma diverso. Ecco, è sufficiente questa consapevolezza a farci percepire quella forma a noi così familiare, perché ci imita, come qualcosa di sbagliato. E a generare paura.
Bub de "Il Giorno degli Zombi" (1985) di George A. Romero
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Pigmalione costruì una statua femminile, sì perfetta che se ne innamorò. Ma era pur sempre una statua. La forma è l’aspetto esteriore. Qualora non corrisponda al nostro canone di familiarità, ci respinge a prescindere. Se è simile a noi, ci rasserena, fino al momento in cui il robot, l’apparizione o quel che è, non rivela la sua natura aliena. Meccanismo elementare e, visto che siamo in periodo pasquale, mi viene in mente un altro episodio, biblico, sul quale vi raccomando di evitare il sarcasmo. Io lo cito perché lo trovo in linea con l’argomento e null’altro.
Prendete la resurrezione di Gesù che, dopo, si presenta agli apostoli per dimostrare che è proprio lui a essere risorto. La sua forma è familiare, ma allorquando Tommaso tocca la ferita sul costato, egli si rivela come creatura aliena, sconosciuta, diversa e, infine, perturbante, infatti Tommaso ne è sconvolto. Penso che non ci sia esempio più calzante di questo.
Tornando al grafico, addirittura è prevista l’ipotesi della vista del cadavere, del quale ci turba non l’essenza, ma l’Assenza di vita, diversità oggettiva. E dello zombie che (decomposizione a parte), in teoria dovrebbe spaventarci perché costituisce una scissione netta tra il nostro quotidiano e la rappresentazione distorta, opposta, che esso è: un essere morto, che però imita l’essere vivente.
Insomma, il fascino della Zona Perturbante è soprattutto l’efficacia che essa dimostra di avere, per me, nella creazione di motivi, nella narrazione, oltre che un interessante passeggiata nella gamma dell’emotività umana. Una teoria intrigante.
Voi, che ne pensate?