Se un racconto è, almeno nella nostra accezione, una cronaca di qualcosa di particolare che accade nel continuum temporale, “L’uomo che sfuggiva alla morte”,di Massimo Acciai, ti cattura subito con un buon inizio.
“… ma c’era tra la folla quella nera signora
stanco di fuggire la sua testa chinò:
“… Eri fra la gente nella capitale,
so che mi guardavi con malignità,
son scappato in mezzo ai grilli e alle cicale,
son scappato via ma ti ritrovo qua! …”
Il racconto è certamente ispirato al testo “Samarcanda”, del musicista-poeta R. Vecchioni, come del resto si evince dall’iniziale citazione dell’autore. Metafora dell’angoscia di morte, dellaumana ricerca di un’eternità agognata, ma anche temuta. L’uomo del racconto possiede il dono (o la maledizione?) della preveggenza, sa dove “non deve andare”, e scansa abilmente la falce che sta per abbattersi su di lui. Ma il dono è anche condanna, l’uomo è costretto ad un perenne pellegrinare, “sempre straniero” sotto cieli stranieri;aggrappato a sogni premonitori, solo tra generazioni che si rinnovano, stretto all’albero della vita, cercando di respirarne la linfa, “il contatto buono con la terra e con le radici dell’esistere”.
E tuttavia al passare del tempo non si sfugge. Sorta di “Ritratto di Dorian Gray”, la “turpe vecchiaia” segna le sembianze dell’uomo che schiva la Nera Signora;è lì, a deturpargli il volto,a ricordargli l’ineluttabilità e la disgregazione operata dai giorni che si susseguono,e lo induce al dubbio: meglio sarebbe forse smettere di fuggire ed andare incontro all’ignoto “al di là.
Poiché è difficile rinunciare alla vita, il pellegrinare si protrae senza fine, con lo sberleffo alla Nera Signora, fin quando il viaggio può ancora continuare, anche senza la speranza del superamento del limite mortale. Il protagonista, eternamente vivo, ma non eternamente giovane, sfugge agli agguati, riflette sull’inevitabile fine dell’universo e si concede un momento di poetica malinconia nell’immagine della scultura di un vecchio abbarbicato all’albero della vita che nessuno di noi vuole abbandonare pur nei disagi inevitabili dell’età avanzata. Perché la vita è sempre e comunque vita. Non morire significa, però, rimanere fermi – nonostante i viaggi e i continui spostamenti per sfuggire al destino – non scoprire ciò che tutti noi, prima o poi, dovremo scoprire, cioè che cosa sta al di là.
Purtroppo il finale delude una così buona premessa, sembra risolto in fretta, per dare una chiusa e un’apparente svolta contenutistica. Non c’è il senso della vita in questo racconto amaro, solo il senso di finitezza, la fuga perenne verso un’eternità artificiale, in una quotidianità perturbante, nel tentativo di esorcizzare angosce e paure ancestrali. Perché non sviluppare lo spunto del racconto e farne un suggestivo, “calvinistico” romanzo surreale?
Lo stile è scorrevole, appesantito da qualche evitabile ripetizione.Buono è il ritmo narrativo, non c’è una trama vera e propria, ma un susseguirsi di immagini dinamiche che danno il senso della fuga; mentre memorie, riflessioni, digressioni, traslano in una sorta di incubo sognato.
Patrizia Poli e Ida Verrei
L’uomo che sfuggiva alla morte
Corri cavallo, corri ti prego
fino a Samarcanda io ti guiderò
Roberto Vecchioni
L’uomo fuggiva. Era fuggito per tutta la vita ed avrebbe continuato all’infinito a fuggire. Solo fuggendo poteva rimanere vivo, per decenni, per secoli, forse per sempre.
L’uomo poteva fuggire proprio perché sapeva dove non doveva andare, e poteva saperlo grazie ad un dono che altri avrebbero considerato una maledizione: l’uomo poteva vedere nel futuro, poteva vedere la sua morte. Se ad esempio vedeva che l’indomani sarebbe stato investito da un’auto in una certa via ad una certa ora, gli bastava semplicemente essere altrove. Se vedeva la Nera Signora che lo attendeva in una certa città sotto forma di un male incurabile, lui evitava semplicemente di andare in quella città. Perché la Nera Signora esisteva veramente, eccome se esisteva! Lui poteva vederla, con il suo mantello nero come una notte senza luna e senza stelle, e la sua falce scintillante in mano, smisurata, tanto grande da poter affettare l’intero pianeta come un cocomero maturo. E l’uomo poteva leggerle nella mente, per questo poteva conoscere i piani nei suoi confronti, e mandarli all’aria. Era sicuro che la Nera Signora non gliene voleva troppo; in fondo lui non era che un singolo uomo a fronte di miliardi di suoi simili che poteva tranquillamente falciare come aveva sempre fatto, e poi sospettava che fosse per lei un piacevole diversivo ad un mestiere che – nel corso delle innumerevoli ere geologiche – era diventato certamente monotono.
Ma non si faceva illusioni: la Nera Signora lo inseguiva, stabilendo sempre nuovi appuntamenti a cui lui fuggiva regolarmente. Grazie a quella curiosa telepatia. Così fuggiva, attraverso i sogni in cui sperimentava l’unica morte che avrebbe conosciuto per un tempo indefinito. Una volta ad esempio aveva visto la Nera Signora che con la falce tagliava un cavo sospeso sopra la sua testa in un cantiere in via Spaventa a Firenze, ed aveva annullato il viaggio in Italia che aveva programmato per la settimana successiva. Un’altra volta si era visto morente in un letto d’ospedale a Praga, ed ancora una volta aveva cancellato un altro luogo dalle sue carte geografiche che si portava sempre dietro in ogni spostamento e che occupavano ormai un intero scaffale in ogni casa in cui andava a vivere. La sua fuga richiedeva precisione e memoria per mancare agli appuntamenti. Guai se un giorno avesse dimenticato i suoi sogni, o avesse sofferto d’insonnia! Era successo un paio di volte nella sua lunghissima vita, e per tutto il giorno non aveva fatto che guardarsi alle spalle, con l’inquietante sensazione di essere seguito dappresso. Quando si voltava non c’era nessuno, ma quel senso opprimente non lo aveva abbandonato fino a sera, quando si era di nuovo coricato. La notte lo aveva avvolto come una coperta calda, sotto ad un cielo straniero. Sempre straniero in ogni dove, dalle capanne africane ai ghiacci nordici, dai grattacieli di Tokio a quelli di Nuova York.
L’uomo aveva così attraversato il mondo e l’oceano del tempo come un vascello solitario, vedendo l’Uomo cambiare e rimanere sempre lo stesso, le generazioni rinnovarsi ed i fiori mostrare gli stessi colori e le stelle la stessa luce ammiccante. Era tutto un enorme, smisurato déjà vu, e in quei momenti comprendeva come mai – se esisteva qualcosa come la reincarnazione – gli uomini dimenticavano le vite precedenti.
Sapeva tuttavia che la sua non sarebbe stata una vita eterna, perché nulla è davvero eterno, perché anche il pianeta Terra ha il suo appuntamento con la Nera Signora, sotto forma di una vampata di plasma che le avrebbe lanciato contro il sole – tramutato in gigante rossa – tra miliardi di anni, e che lo stesso universo era destinato ad una lenta morte termica o a un nuovo Big Bang con cui avrebbe ricominciato. Anche se fosse riuscito a sopravvivere a tutto questo, sarebbe stato solo in un cosmo in cui ogni altra forma di vita sarebbe stata distrutta.
Perché dunque andare avanti?
L’uomo si era posto la domanda innumerevoli volte, e si era sempre dato la stessa risposta.
Ricordava un viaggio a Oslo, molto tempo prima, dove aveva visitato il Parco di Vigeland. Là aveva visto una scultura che lo aveva impressionato: un vecchio canuto e cadente abbracciava con disperazione l’albero della vita, riluttante a lasciarlo. C’era un terrore cieco nel suo sguardo, ma anche malinconia. Non c’era però rassegnazione. Nonostante fosse arrivata la sua ora, cercava con tutte le sue forze il contatto buono con la terra, con le radici dell’esistere. L’uomo si era rispecchiato in quel vecchio: così erano i suoi sentimenti verso la vita, un amore e un attaccamento infinito, anche se poteva evitare il fiato marcio della Nera Signora soltanto allontanandosi di un passo da lei. E quella volta, al parco, aveva pianto. Perché se anche poteva fuggire la Nera Signora, di certo l’uomo non poteva fuggire alla sua compagna e socia; la Vecchiaia. L’uomo aveva ormai più o meno cinquecento anni e li dimostrava tutti. Continuava ad invecchiare indefinitivamente: da tempo ormai aveva assunto un aspetto ripugnante, mostruoso, che mascherava con astuzia per mostrarsi in pubblico.
Era una ben misera vita quella che conduceva, tutto sommato, e talvolta fantasticava se non fosse poi meglio farsi raggiungere e scoprire se al di là c’era qualcosa e si stava meglio. Ma l’uomo aveva una gran fortuna dalla sua: gli piaceva viaggiare, poteva permetterselo ed aveva un insospettabile animo infantile e giocherellone, quello stesso che gli permetteva di fare ogni giorno un gioioso “marameo” all’indirizzo della Nera Signora.
Massimo Acciai