Laboratorio Lovecraft - "Lovecraft, L'estraneo" di Andrea Casella

Creato il 22 gennaio 2014 da Letteratura Horror @RedazioneLH

Quest'oggi per Laboratorio Lovecraft riportiamo un interessantissimo intervento a firma di un affezionato lettore, Andrea Casella, dal titolo Lovecraft, l'estraneo. Consigliamo vivamente questo articolo a tutti gli amanti del Solitario di Providence, agli aspiranti scrittori, soprattutto del genere horror, e a chi voglia conoscere qualcosa in più sulla figura e sulla filosofia e modo di pensare del grande maestro del terrore.

Lovecraft, l’estraneo

Ci è noto, in quanto appassionati lettori del sognatore di Providence, il Lovecraft dell’orrore cosmico, degli esseri antidiluviani calati sulla Terra milioni di anni fa e che di tanto in tanto si divertono a condurre alla follia e alla rovina coloro che hanno la malaugurata idea di accostarsi a dottrine proibite. Ma non si potrebbe capire il Lovecraft “maturo”, depositario e custode della filosofia della catastrofe cosmica, senza indagarne il sostrato, senza individuare il germe da cui quella filosofia si è originata, e che traspare da alcuni racconti “necrofili” dell’autore. Mi riferisco soprattutto a storie come La tomba, L’estraneo, I cari estinti e, in parte, L’innominabile.
Lovecraft, fin dall’inizio della sua vita, si è sentito fuori posto, “gettato” - in senso esistenzialistico -, fra gli oggetti di un mondo moderno che non gli apparteneva e che non apparteneva a lui. La ricerca di una dimensione autentica, lontana da quella Vita che non aveva attrattive per lui, lo spinse, consapevolmente, a rifugiarsi nella dimensione della morte. Coloro che conoscono l’impulso irrefrenabile e appassionato che li spinge a girare per i cimiteri di notte, a violare cripte ed ossari per poter stare vicino “ai morti che amano”, sentiranno esalare da quei racconti un sentimento di intima fratellanza. Sono sentimenti, quelli che derivano dal desiderio di vicinanza alla morte, coltivati fin dall’infanzia, e Lovecraft pone giustamente in quell’età la radice del morboso amore. Jervas Dudley de La tomba è un ragazzo, così come giovane è l’essere in L’estraneo (autentico capolavoro, mi si lasci dire, della metafora del diverso); ancora, l’anonimo protagonista de I cari estinti è un ragazzo allorché sente nascere in lui il sentimento di amore verso i morti, amore spinto fino a diventare un assassino per poter godere costantemente della vicinanza dei morti (una specie di “divoratore di cadaveri”, di ghoul umano?). Nessuno è in grado di capire le intime ragioni del necrofilo: bisogna essere un necrofilo suo pari per capirne le motivazioni, ed è anche semplicistico parlare di mere “metafore”. Lovecraft è un uomo di un altro tempo imprigionato in un tempo estraneo, intruso involontario fra gente che non sa, non comprende l’orrore totale del meccanicismo della vita moderna. L’essere un uomo di un altro tempo lo porta naturalmente ad amare di un amore sviscerato e incondizionato solo ciò che “non è più”. I morti - questa volta osservati dalla prospettiva poetica - simboleggiano la nostalgia del passato a cui egli si attacca disperatamente. La modernità è per lui un insieme di incomprensibili banalità e orribili misteri privi di bellezza e poesia (che prendono la forma di Cthulhu, di Nyarlathotep e degli altri). E Lovecraft non amava la poesia moderna. Definì, nel suo frammento dell'Azathoth, i poeti moderni come “fantasmi dagli occhi ciechi che guardavano solo dentro se stessi…”. Fu mai coniata espressione più felice contro l’ermetismo imperante del ‘900? L’ermetismo è la soggettività esasperata, l’introspezione assurdamente elevata a regola. Non si canta più, come un tempo, della natura. La poesia è morta, e i poeti l’hanno uccisa. A Lovecraft, uomo del tempo antico, non resta altro che il rimpianto. La poesia amata è quella greco-romana, è quella della nobile tradizione settecentesca anglosassone (Matthew Prior, Edward Young, James Hervey, Alexander Pope). E Jervas Dudley, in un impeto di ispirazione poetica, non compone forse una poesia sul modello settecentesco, rischiando in tal modo “di combinare un disastro” a colazione? Sì, un disastro: perché chi oggi si mettesse a declamare versi classicheggianti in una strada affollata, sarebbe preso per pazzo e condotto via di forza. Non resta, a noi estranei suoi pari, che recitare quel verso dell’Eneide: Sedibus ut saltem placidis in morte quiescam.

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