"land grabbing": la nuova frontiera del colonialismo

Creato il 27 marzo 2012 da Giuliano @giulianofalco
36602. ROMA-ADISTA. «È l’ultima invenzione dei Paesi ricchi e di chi, comunque, ha i mezzi per depredare ancora di più – dopo lo schiavismo e l’accaparramento delle risorse minerarie – i nostri fratelli africani»: così un editoriale del numero di marzo-aprile della rivista dei padri bianchi, africa missione e cultura, descrive il fenomeno del land grabbing che, letteralmente, significa “accaparramento di terra”. L’acquisizione su larga scala di terreni da parte degli Stati e delle multinazionali non è un fenomeno nuovo, ma ha subìto un’impennata vorticosa negli ultimi dieci anni, durante i quali, secondo l’International Land Coalition (www.landcoalition.org), sono stati venduti – o dati in concessione per periodi da 40 fino a 99 anni – terreni per una superficie equivalente a circa sette volte l’Italia. Il picco si è registrato dopo il biennio 2007-2008, in seguito all’aumento esponenziale dei prezzi dei prodotti agricoli e all’esplosione demografica, che riduce progressivamente la quantità procapite di terra coltivabile. Molti Paesi si sono così trovati nella condizione di dover scegliere tra l’acquisto di prodotti sui mercati esteri a prezzi sempre meno vantaggiosi o l’accaparramento di terreni fertili in aree economicamente depresse del pianeta per sopperire alla sicurezza alimentare interna. Questo, per lo meno, è il motivo ufficiale che sta alla base del land grabbing. Ma poi bisogna aggiungere le altre mire, meno esplicite, degli investitori: la corsa alle risorse minerarie o alle fonti d’acqua potabile e l’espansione del mercato dei biocarburanti (a questo scopo sarà destinato il 37% delle terre, contro l’11,3% degli investimenti per scopi alimentari). Ciliegina sulla torta, l’espansione sui mercati di nuove e aggressive potenze economiche, come Cina e India, seguite a distanza da Arabia Saudita, Emirati Arabi, Corea del Sud, e altri. Nuovi e vecchi competitor le cui necessità speculative richiedono la “conquista” di vaste aree fertili del pianeta. E così, Paesi dal capitale facile, ma sprovvisti di terra, si sono rivolti a quelli economicamente poveri, ma ricchi di terra “vergine”, abitata da piccoli agricoltori locali e attraversata da carovane di pastori nomadi, e mai soggiogata ad una logica industriale imprenditoriale.
Si dice “investire”, si legge “rapinare”
Un fenomeno dunque di grandissima portata – fortemente incoraggiato dalle istituzioni internazionali (Fmi, Banca Mondiale, Fao, ecc.) che lo ritengono una panacea per i problemi alimentari, imprenditoriali, occupazionali e di “modernizzazione” dei Paesi poveri – e dalle conseguenze disastrose per le popolazioni agricole locali che, generalmente, non possono vantare alcun titolo di proprietà sulle terre. Espropriate e sfrattate forzosamente dai governi, senza aver partecipato alle trattative condotte spesso in modo poco trasparente dalle istituzioni, subiscono violente repressioni quando tentano di opporsi. Sono molte, infatti, le testimonianze di imprigionamenti, torture, pestaggi, anche omicidi. Il più delle volte, poi, le imprese straniere (tipica prassi di quelle cinesi e indiane) preferiscono lavorare con manodopera importata dai Paesi d’origine, senza creare nuova occupazione o “riconvertire” la manodopera contadina deprivata della terra. Inoltre, le nuove imprese inquinano appezzamenti e corsi d’acqua; modificano la destinazione delle aree agricole indebolendole con le monocolture; costringono le popolazioni locali a trasformare la propria dieta e ad acquistare i prodotti sul mercato a prezzi sempre più elevati; disgregano il tessuto economico e il mercato locale, al quale era rivolta l’agricoltura familiare e comunitaria. Infine, l’ombra lunga del land grabbing si estende minacciosamente anche sulle popolazioni urbane, destinate a crescere a ritmi ancora più sostenuti per l’afflusso delle nuove popolazioni “senza terra”.
Le aree rurali più colpite dal fenomeno, secondo un dossier di Oxfam (confederazione internazionale di associazioni contro la povertà), Land and Power. The growing scandal surrounding the new wave of investments in land (pubblicato il 22 settembre scorso e relativo all’anno 2011; documento completo su www.oxfam.org), sono senza dubbio quelle dell’Africa subsahariana e vedono in cima alla lista Mali, Tanzania, Ghana, Mozambico, Senegal, Liberia e Sud Sudan. In Africa si sarebbe venduta o data in concessione una porzione di terra grande quanto la Germania.
Appello di Dakar contro il land grab
Nato in seno all’ultimo World Social Forum (Senegal, febbraio 2011), l’Appello di Dakar contro il land grab (www.dakarappeal.org) ha raccolto nel tempo l’adesione di circa 700 organizzazioni di tutto il mondo, religiose e laiche, tra le quali anche le italiane Arci Cultura e Sviluppo, Crbm (Campagna per la Riforma della Banca Mondiale), Mani Tese, Cospe (Cooperazione per lo Sviluppo dei Paesi Emergenti) e Lvia. L’appello prende le mosse da alcune considerazioni generali. Innanzitutto sottolinea il primato della piccola agricoltura familiare – che raccoglie «la maggior parte degli agricoltori del mondo» – capace di garantire la sicurezza e la sovranità alimentare, l’impiego delle popolazioni locali, lo «sviluppo territoriale equilibrato», «il rispetto dell’ambiente e la conservazione delle risorse naturali per le generazioni future». L’appello ricorda poi che il land grabbing tutela esclusivamente gli interessi delle multinazionali o degli Stati terzi che, con l’acquisto o l’affitto di terra accedono a inesauribili fonti di cibo, energia, risorse minerarie, siti turistici e siti strategici. E lo fa sulla pelle delle comunità locali. Di fronte a questo stato di cose, denuncia l’appello, le responsabilità dei «governi complici», che dovrebbero essere i primi difensori dei diritti dei popoli,
sono enormi.
A partire da queste considerazioni, l’appello invita «i parlamenti e i governi nazionali a fermare immediatamente l’accaparramento attuale o futuro di ingenti terre e restituire la terra saccheggiata». Reclama inoltre la fine dell’oppressione e della «criminalizzazione» dei movimenti di lotta per la terra. Chiede infine «un quadro efficace per il riconoscimento e la regolamentazione dei diritti fondiari per i contadini attraverso la consultazione con tutte le parti interessate. Ciò impone di porre fine a corruzione e clientelismo, che invalidano qualsiasi tentativo di gestione condivisa del territorio».
L’appello esprime scarsa fiducia anche nei confronti delle grandi istituzioni internazionali, come la Banca Mondiale, che tutelano esclusivamente gli interessi del grande capitale finanziario internazionale, promuovendo politiche capitalistiche neocoloniali e incuranti dei diritti dei popoli oppressi. «Noi tutti – conclude l’appello – abbiamo il dovere di resistere e di sostenere le persone che lottano per la loro dignità!».
Alleanza internazionale contro il land grabbing
Si pone esplicitamente in continuità con l’Appello di Dakar la mobilitazione lanciata a Nyeleni (Mali, 17-21 novembre scorso) durante la conferenza “Stop the land grab”, promossa dal maliano Cnop-Coordinamento nazionale delle organizzazioni contadine (www.cnop-mali.org) e dal movimento internazionale di contadini “Via Campesina” (http://viacampesina.org). Un’alleanza tra comunità di contadini e contadine, popoli indigeni, associazioni e sostenitori, per ricordare che il land grab è una questione di diritti umani: «Constatiamo con grande inquietudine – si legge nella Dichiarazione della conferenza in Mali – che gli Stati non stanno adempiendo ai loro obblighi e stanno mettendo gli interessi economici e finanziari pericolosamente davanti ai diritti», tra i quali «l’autodeterminazione dei popoli, il diritto ad una vita adeguata, all’alimentazione, all’abitazione, alla cultura, alla proprietà, alla salute e alla partecipazione». L’accaparramento di terra attesta ancora una volta il dominio di una «struttura imperialista Nord-Sud» che si accanisce su comunità locali e popoli indigeni, mettendo a rischio la loro esistenza. Pertanto Via Capesina e Cnop affermano che «la lotta contro il land grabbing è una lotta contro il capitalismo, il neoliberismo e il modello economico distruttivo». La sfida è grande e l’unione fa la differenza: per questo, i due organismi invitano tutte le organizzazioni di contadini del mondo a darsi una struttura a partire dall’Appello di Dakar e lanciano l’idea di un’«alleanza internazionale contro l’accaparramento di terre», dotata di una banca dati capace di raccontare nei dettagli il fenomeno; di un gruppo di legali esperti nel diritto internazionale e nei diritto umani; competenze per avviare una serie di attività di comunicazione e sensibilizzazione nella società civile, lobbying e advocacy sulle classi dirigenti e sui media, per lo più schiacciati sulle posizioni del modello economico dominante. (giampaolo petrucci)
http://www.adistaonline.it/index.php?op=articolo&id=51433

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