Land grabbing /Repetita Iuvant

Creato il 09 settembre 2012 da Marianna06

Lo scorso 1 settembre si è celebrata la Giornata per la salvaguardia del Creato, indetta dalle diverse confessioni cristiane d’Europa.

Nell’occasione non si è mancato di sottolineare,ed era più che giusto che lo si facesse,quanto accade in termini di land grabbing ,e ormai quasi dappertutto lì dove c’è terra da “scippare”, da parte dei Paesi ricchi nei confronti di quelli poveri, costretti dai loro stessi governanti, per ragioni economiche, a svendere il proprio “ambiente” e, quel che è paggio, senza ricadute positive in generale per la gente comune.

 Semmai esattamente il contrario.

Land grabbing, infatti,  può essere letto, senza tema d’errore, “accaparramento”.

Andando dal generale al particolare, in un interessante articolo su di un noto settimanale cattolico torinese,”Il nostro tempo”, l’amico don Mario Bandera, un prete e un uomo straordinario al tempo stesso,da operaio in fabbrica a sacerdote( una vocazione adulta),oggi responsabile  dell’ufficio missionario della diocesi di Novara, ci fornisce alcuni dati.

E questi dati io mi limito a passare, per una riflessione, agli amici di Jambo Africa.

Dati che dimostrano quanto sia difficile un sano combattimento in nome della giustizia,specie se si si posseggono armi impari.

Il primo esempio di “land grabbing”-dice don Bandera – ( anche se lontano nel tempo) è stato proprio quello della Conferenza di Berlino del 1894-95 quando, appunto, Francia, Germania e Inghilterra, le potenze colonizzatrici, decisero di lottizzare l’Africa di allora con le vistose conseguenze- aggiungo io- in termini di guerre civili successive tra Stati “novelli”, messi in piedi  da ambasciatori, politici e militari ,a tavolino, e  con motivazioni strettamente politico-economico-finanziarie.

Ma procediamo con l’oggi.

La prima potenza economica,circa dieci anni fa, a praticare il land grabbing è stata l’Arabia Saudita,una  potenza satura di petrolio e petrodollari ,con cui poter comprare di tutto.

I suo re, Abdullah, per poter sfamare se stesso e i propri sudditi in un Paese che era ed è solo un enorme scatolone di sabbia, cominciò a fare acquisti di ettari ed ettari di terreno in molti Paesi africani.

In particolare in Etiopia, Zambia e Tanzania.

Subito dopo di lui, hanno fiutato l’affare i cinesi, che si sono scapicollati negli acquisti tanto nella stessa Asia ( Kazakihstan – Laos) e poi a Cuba che in Africa, a causa dell’ inarrestabile proprio incremento demografico.

Addirittura incredibilmente in Congo i cinesi hanno acquistato la bellezza di 2 milioni e 8mila ettari, poi 2 milioni in Zambia, e ancora migliaia di ettari in Camerun,Uganda e altri.

E i cinesi - precisa  sempre don Bandera nel suo articolo – se non riescono a comprare  ricorrono all’affitto.

Anche l’India, oggi potenza anch’essa emergente, sta facendo la stessa cosa e, in Africa, ha fatto grosse spese in Madagascar, la grande isola, in cui c’è una situazione politica, come sapete,  confusa e incerta e una povertà che monta senza scampo, se non cambia niente.

E poi, sempre in Madagascar, non mancano le mire, ad esempio, della Corea del Sud come anche del Qatar, del Bahrain e degli Emirati Arabi.

Accanto al danno ambientale certo e alla fame autentica, che molto spesso è reale per le popolazioni indigene, in questo genere d’affari non c’è neanche ricaduta occupazionale e quindi magari un salario garantito.

Infatti, le maestranze utilizzate per i lavori, in Africa ma anche altrove, sono  in genere di chi fa l’acquisto.

Pertanto, tolta la transazione economica, che finisce quasi sempre nelle tasche dei governanti locali del momento, oppure nei loro conti all’estero, non c’è  possibilità di sviluppo alcuno per il Paese che si svende.

Land grabbing, dunque,  un fenomeno da contestare senza mezzi termini, ogni qual volta c’è spazio per farlo, in quanti trattasi di un ulteriore e più sofisticata forma di “colonialismo”, che proprio non ci piace.

Colonialismo  davvero“indecente”, perché priva di risorse naturali proprie chi fa già di per sé una grande fatica a tirarsi fuori dalle “secche” di una povertà che, in condizioni politiche differenti, non avrebbe certo motivo di essere.

   Marianna Micheluzzi (Ukundimana)


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