L’impegno morale:“Le cose che l’Europa ci chiede servono ai nostri figli e ai nostri nipoti”; quindi, l’obbiettivo politico:“Essendoci un consenso più ampio e una maggiore volontà di cooperazione, credo che potremo andare a fondo”; infine, la tattica del Professor Monti: “l’Italia farà i compiti a casa”
Tra un appello solenne a garantire il futuro della sacra progenie, buono di solito a coprire di rassegnazione le peggiori nefandezze e il grigiore di un impegno diligente tipico di un dimesso travet, l’illuminante lapsus freudiano rivelatore, più di ogni proclama, della vera “mission” di questo governo.
Tre citazioni, frutto di una intensa giornata di incontri a Bruxelles, rivelatrici del carattere e del ruolo del personaggio.
Quali siano esattamente “i compiti a casa” lo ha appreso in confidenza, con un bisbiglio all’orecchio, la Cancelliera Merkel; non possono non conoscerli i reali conferitori dell’incarico, provenienti da Washington, quegli stessi che hanno garantito la caduta in piedi al Cavaliere, anche se allo stesso più che “cadere in piedi” pare interessare soprattutto cadere senza farsi male; disposto a scegliersi, quindi, come morbido ammortizzatore, il piumaggio dei suoi stessi elettori. Li avrà impressi a memoria, ma solo per trasmetterli, il nostro messaggero quirinalizio; li avranno sbirciati, come in ogni esame di stato che si rispetti, i soliti predestinati a superare i concorsi e gli esami oppure gli addetti alla gran cassa impegnati a magnificare le virtù progressive dei nuovi governanti.
Lo sperimenteranno sulla propria pelle le vittime sacrificali; confido che, quantomeno, i flagellati non cadano nella beatitudine masochistica o nella miserevole supplica individuale.
La traccia è stata comunque solcata dalle letterine prenatalizie di Commissione Europea e Fondo Monetario.
La settimana scorsa è stato imposto al Professore, in veste di alunno, un ripasso generale e puntiglioso; il compiacimento momentaneo di Nicolas e Angela per i propositi del loro pupillo del tutto evidenti, anche se serpeggiava il sospetto di qualche suggerimento di troppo, se non addirittura che qualcuno avesse infilato nella giacca l’elenco delle risposte corrette da dare al preesame.
Probabile che i due avessero qualche informazione più precisa sul curriculum scientifico e accademico rispetto ai corifei nostrani.
Per correttezza di informazione, il professor Monti ha precisato immediatamente il senso di quell’inquietante “andare in fondo”; ma nel lapsus freudiano, le precisazioni, il più delle volte, rafforzano le motivazioni inconsce o incontrollate iniziali.
Le prime perplessità, tuttavia, sulle effettive capacità di eseguire in tempi rapidi il compitino da parte del Professore e di gran parte della sua compagine governativa sono già affiorate, persino negli ambienti più accondiscendenti e benevoli.
Un Primo Ministro che in cinque giorni ottiene nomina e fiducia e dopo due settimane ancora non riesce a nominare i sottosegretari, singoli ministri che annunciano novità clamorose e poi scoprono che, tutto sommato, quelle annunciate dal Governo Berlusconi vanno bene pur con qualche accelerazione, ancora Monti che annuncia ulteriori manovre che sono in realtà l’esatta copia, addirittura con qualche dilazione in più riguardante il taglio degli impegni di spesa, di quelle previste dal Cavaliere sono indizi di una scarsa consapevolezza dei tempi stringenti e della natura degli interventi richiesti non tanto dai patrocinatori interni quanto, soprattutto, esteri del Supertecnico.
Le notizie che trapelano parlano di aumenti di imposte, di mancata rivalutazione delle pensioni con l’eccezione delle minime, di qualche detrazione fiscale in meno, ma tutto sommato marginale, forse di un taglio geograficamente selettivo degli stipendi pubblici. Nessun accenno alla riorganizzazione della Pubblica Amministrazione e dei settori privati collaterali e al taglio corrispondente della spesa. Qualche accenno evasivo e, quindi, ancor più inquietante, su privatizzazioni e dismissioni.
Gli argomenti forti sono elusi; per il resto una totale continuità.
Il Governo tecnico o di larga coalizione avrebbe dovuto essere lo strumento di massima accelerazione di queste politiche e la pantomima in corso da inizio estate lasciava presagire questo sulla falsa riga di quanto avvenuto negli anni ’90 con i Governi Amato e Ciampi.
Questa, purtroppo, non è più epoca di grandi illusionisti, bensì di giocatori di “tre carte” abili a far strabuzzare gli occhi ad astanti già predisposti a farsi turlupinare.
Il grigiore perbenista della compagine soddisfa pienamente le aspirazioni alle buone maniere dei tanti moralisti e benpensanti condannati a placare il loro furore antilibertino e vellicare le illusioni dei tanti aggrappati allo “statu quo”.
La stessa situazione, dieci giorni fa ritenuta di emergenza, oggi consentirebbe, apparentemente, tempi più riflessivi.
In realtà questo Governo non è stato chiamato a gestire un’emergenza, ma a proseguire e chiudere definitivamente una transizione in Italia e contribuire ad una ulteriore evoluzione filoatlantica dell’Europa.
Lo ha detto chiaramente Casini quando ha sentenziato che il Governo Monti è la piattaforma su cui fondare la nascita di una nuova coalizione su basi e componenti politiche ricomposte e rinnovate.
Lo ha ripetuto con dovizia di argomenti Ernesto Galli Della Loggia, sul Corriere di venerdì, quando sostiene giustamente che “i governi tecnici non esistono” (parrebbe la citazione di un mio articolo, ma rifuggo da questa profanazione) e invita Monti a “costruire un’immagine politica” direttamente con l’opinione pubblica e, cosa da sottolineare, chiamando i paesi europei a costruire una Europa politica fondata su un governo e su un parlamento europeo in antitesi ai “mandarini di Bruxelles e alla Duma di Strasburgo”, nonché al “direttorio franco-tedesco”.
Come si possa costruire una Europa Politica Unita sulla sola base di un Governo e di un Parlamento e come questo, per di più, possa essere edificato in pochi anni se non mesi dopo sessant’anni di distruttiva mitologia e retorica europeista fondata sul più bieco economicismo e sulla totale dipendenza dagli Stati Uniti è un discorso già trattato dal blog, meritevole di ulteriore approfondimento, ma sul quale il professore-giornalista dovrebbe spendere qualche parola in più.
Sta di fatto che ormai abbiamo quel “Podestà Straniero” invocato dal professore, pensando probabilmente a se stesso.
Speriamo che non sia propedeutico ad un ciclo di “secoli bui”, anche se già qualche anno sarebbe di per sé sufficiente ad affossare il paese.
A prescindere dal giudizio di adeguatezza, per altro dubbio, del personaggio Monti, questo Governo ha comunque assunto l’investitura per svolgere due compiti essenziali, di lunga durata, almeno nelle intenzioni dei promotori, con all’interno di esso un paio di personaggi, Passera in particolare, potenzialmente in grado di gestire l’intero processo, almeno negli aspetti scenici e nella funzione di collante con le élites determinanti.
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Compito legato al mantenimento della formazione sociale
Il primo è quello della costruzione di un soggetto politico nuovo anche se non unico fondato su nuove figure e sulla frammentazione e ricomposizione degli attuali partiti e, conseguentemente, della costruzione di un nuovo blocco sociale.
Gli antefatti politici evidenti prossimi della maturazione di questo programma sono già stati evidenziati in altri articoli:
l’assemblea delle associazioni di artigiani, commercianti e piccoli imprenditori di luglio scorso; il documento congiunto del 30 settembre di Confindustria, Associazione Bancaria, sindacati con cui si sosteneva il rispetto delle direttive europee, le liberalizzazioni e privatizzazioni, in una sorta di alleanza imprenditori-dipendenti privati e pubblici-professionisti e autonomi a scapito dei pensionati; le esternazioni solipsistiche di alcuni importanti imprenditori cotonieri e di associazioni da essi ispirate; come atto finale, la prolusione settembrina del cardinale Bagnasco e il seminario delle associazioni cattoliche di Todi di metà ottobre con il quale si sollecitava il ricambio politico, si prendeva atto dell’impossibilità di ricostituzione di un unico partito di ispirazione cattolica ma della possibilità, altrimenti, di ricostruzione di un ruolo politico dei cattolici nei vari schieramenti e nella formazione di una nuova classe dirigente, si sottolineava l’importanza, in Italia, “del civile (associazionismo, cooperazione, terzo settore in generale) accanto al pubblico (imprese, Stato ed enti) e al privato (imprese) come terzo pilastro fondamentale dell’architettura della società”.
Tra i relatori nel seminario a porte chiuse, manco a dirlo, tali Passera e Ornaghi.
Si tratta di una rappresentanza totalitaria della società civile italiana, anche se la reale rappresentatività e forza persuasiva di queste associazioni si è significativamente ridotta rispetto soltanto a venti anni fa.
Ben altri fattori hanno determinato la destabilizzazione del Governo Berlusconi: i conflitti nel Nord-Africa, il ruolo della magistratura, gli attacchi speculativi centrati sull’Europa Continentale.
Un indizio secondario ma significativo del loro peso, segno anche della decadenza dei tempi, lo troviamo nella rozza giravolta condotta dalla Chiesa Cattolica, ai danni della credibilità personale del vescovo di Tripoli, Martinelli e dello stesso patrimonio secolare di abile ipocrisia costruito dall’istituzione, sulla guerra libica
Ma i primi sono indicativi del tentativo di riassetto della formazione sociale in funzione dei nuovi equilibri internazionali.
Il drastico aumento dell’imposizione fiscale indiretta servirà soprattutto a garantire il drenaggio di risorse, destinate soprattutto all’estero, legato all’aumento degli interessi sui titoli pubblici e in parte a ridurre la pressione fiscale sulle aziende e, forse, sui dipendenti con qualche dubbio sulla reale entità a favore di questi ultimi legato alla consistenza della riduzione delle detrazioni fiscali. Si tratta di una parziale riproposizione, in tutt’altro e meno efficace contesto, delle politiche di dieci anni fa adottate dalla Germania a scapito, soprattutto, dei restanti paesi europei.
La liberalizzazione delle tariffe professionali, in mancanza di una riorganizzazione e semplificazione drastica delle procedure dell’amministrazione e dei servizi pubblici servirà ad appiattire i redditi di gran parte del ceto medio professionale autonomo, pregiudicandone status e patrimonio economico, mantenendone, però, il ruolo sociale su cui fondare la posizione e la funzione nella formazione sociale; in pratica si tratta della stessa dinamica prodotta, nelle imprese e nella pubblica amministrazione, dall’appiattimento legato al blocco di fatto dei livelli salariali bassi e, soprattutto, intermedi di questi ultimi anni ai danni del ceto medio dipendente, solo in piccola parte giustificati dai mutamenti organizzativi delle imprese e dalle capacità professionali richieste.
Nulla si proferisce sulla riorganizzazione della pubblica amministrazione e sulla fornitura dei servizi e sulla necessaria e dolorosa ristrutturazione del personale.
Si da per scontata, per pressoché unanime accondiscendenza, la rapida dismissione o l’abolizione della golden share sulle partecipazioni delle residue aziende pubbliche strategiche, nonché la rapida privatizzazione e liberalizzazione indiscriminata della grande rete nazionale dei servizi con grande beneficio delle imprese straniere e delle capacità di controllo di quei centri strategici sul nostro paese.
Più dilazionata nel tempo appare la liberalizzazione e la privatizzazione dei servizi pubblici locali.
Tutta la campagna sulla privatizzazione dei servizi poggia sulla critica fondata della gestione clientelare e fallimentare di buona parte di questi; non è da escludere che, laddove esista un controllo rigoroso dei criteri di gestione e della qualità dei servizi, l’introduzione di criteri privatistici possa migliorare le forniture; sulla base degli antefatti, quello che appare più probabile è una semplice spartizione tra le grandi reti nazionali affidate ad imprese straniere, per semplice assenza di attori nazionali e quelle locali gestite in condominio tra stranieri e imprese italiane; le une dedite al drenaggio e al controllo strategico del paese, le seconde al solo drenaggio delle risorse residue.
Un patto scellerato ed illusorio mirante a garantire la sopravvivenza della piccola e media impresa e del ceto medio indistinto a scapito della residua grande impresa nazionale.
Quanto sia importante, invece, dal punto di vista geostrategico ed economico il ruolo della grande industria, compresa la sua funzione di traino dei restanti settori imprenditoriali, lo si vede dalle conseguenze della crisi politica e dalla perdita di peso del paese e, corrispondentemente, di queste aziende nel contesto internazionale; non lo vedono gli occhi terrorizzati dei liberisti impotenti e non vogliono vederlo quelli dei liberisti asserviti coscientemente.
Tutta l’enfasi posta dalla chiesa cattolica e dai fautori dell’economia sociale di mercato sulla importanza del terzo settore in realtà mira alla candidatura alla gestione dei servizi collaterali e, soprattutto, alla salvaguardia possibile delle strutture in gran parte parassitarie ed assistenziali legate all’associazionismo e alla cooperazione.
Anche su questo la generalizzazione è pericolosa e fa torto al grande patrimonio associazionistico e volontario presente in Italia, dalle radici secolari ma in progressivo declino corrispondente a quello delle generazioni che lo hanno alimentato.
Si tratterà di analizzarlo considerando il fatto che coinvolge alcuni milioni di persone nel paese e funzioni importanti dal punto di vista della composizione del blocco sociale e della coesione della formazione.
Sta di fatto che liberismo asservito e fautori acritici del terzo settore trovano la sintesi e la simbiosi in personaggi come Monti e Passera, espressione dei centri strategici ma con saldi legami e riconoscimenti tra i secondi.
Le priorità temporali sono comunque assegnate al drenaggio fiscale e alle dismissioni.
Su queste ultime è in corso una campagna forsennata dei più feroci paladini.
L’Istituto Leoni ormai da tempo meriterebbe da solo ulteriori analisi e anatemi, anche se più volte è stato oggetto di nostra attenzione in articoli precedenti.
Si è aggiunto con più convinzione, una volta rimosso l’ostacolo Berlusconi, il Corriere.
Tra i tanti emerge il rigore di Roger Abravanel il quale, domenica 27, discetta sulla convenienza attuale della vendita delle azioni pubbliche di ENI, ENEL e Telecom, confrontando gli utili delle aziende e i tassi correnti del debito pubblico ma dimenticandone l’attuale quotazione inficiata anche, ma non solo, dalle campagne giudiziarie; rileva la funzione positiva della dismissione nella riorganizzazione delle aziende; magnifica la convenienza della vendita legata alla loro frammentazione.
Il suo esercizio contabile, stranamente privo per un ingegnere di tal fatta di diverse incognite nelle sue equazioni, ignora il carattere contingente e statico di queste comparazioni, presuppone o ritiene ininfluente che tali attività rimangano nel paese; considera inesistente la funzione strategica di esse per il paese stesso; ignora le conseguenze di una possibile perdita di un patrimonio tecnologico acquisito con decenni di risorse ed esperienze; concede, bontà sua, di sorvolare sulle questioni della corruzione legate al carattere pubblico delle aziende.
In quest’ottica appare del tutto velleitario e mistificatorio l’appello di Della Loggia a Monti di offrire al paese una prospettiva e un futuro che sappia raccogliere all’unisono i sudditi.
Tutto ciò rivela, assieme alla disamina del secondo punto, quali siano le priorità effettive nel grande gioco in atto
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La politica europea del Governo Monti
A questi fattori interni si aggiungono gli obbiettivi internazionali, in particolare quelli in Europa che il Governo Monti sembra essersi posto, o che altri gli avrebbero imposto, anche se in maniera, in precedenza, più sfumata ma d’ora innanzi in maniera vieppiù sfacciata.
Da mesi, anche la stampa più conformista e soggiogata dalle virtù dello straniero, come il Corriere, è colta da un soprassalto inaspettato di nazionalismo apparentemente contraddittorio rispetto al servilismo mostrato anche nelle peggiori e più vili avventure come quella libica.
Il bersaglio privilegiato è stato prima la Francia, poi, sempre meno velatamente, la Germania, infine il direttorio franco-tedesco; soprattutto, quest’ultimo, dopo la caduta del Governo Berlusconi. L’accusa si fonda sull’autoritarismo e unilateralismo del direttorio, sull’esautoramento del ruolo degli altri stati europei e sul ridimensionamento della Commissione Europea, diventati mandarini cinesi allorquando si sono rivelati succubi delle politiche tedesche e non solo, come in precedenza, di quelle americane.
Lo strabismo di queste attenzioni sono evidenti allorquando cade nell’oblio l’ineffabile proposta americana, approvata dai paesi europei, con l’eccezione almeno momentanea della Germania, di aggirare il divieto di garanzia di ultima istanza dei debiti sovrani da parte della BCE, con un ulteriore finanziamento del FMI (Fondo Monetario Internazionale) da parte dei paesi europei, già particolarmente esposti, più degli stessi Stati Uniti, nel loro contributo all’organizzazione.
Il perfezionamento di un capolavoro con gli europei che già finanziano maggioritariamente e gli americani che gestiscono i crediti del FMI e controllano le politiche e le finanze dei paesi soggiacenti, compresi gli europei stessi.
L’Argentina e la Russia dovrebbero ricordare bene l’abisso in cui si erano cacciate; ai servi, però, la storia non insegna niente.
La proposta che sta maturando, in questo anticipato dal cieco europeismo del PD, è quello della costituzione di un governo e un parlamento europei che esautori il Consiglio Europeo dei Ministri e dei Capi di Governo a complemento del direttorio tecnocratico ormai in via di consolidamento.
In un contesto pletorico di ventisette paesi squilibrati economicamente e divisi politicamente, la riproposizione, in pratica, sotto nuove vesti, della Commissione Europea con la rimessa in gioco a pieno titolo della Gran Bretagna nella scacchiera europea e la possibilità degli Stati Uniti di giocare sulle divisioni tra gli stati europei, come sino a cinque/sei anni fa.
Una operazione probabilmente troppo dispendiosa per gli americani, ormai impegnati strategicamente su più fronti ma che ridimensionerebbe drasticamente il ruolo della Germania e offrirebbe qualche chances agli altri valletti dell’imperatore d’oltreoceano.
Per raggiungere l’obbiettivo, l’Italia dovrebbe raccogliere il malcontento degli stati europei più piccoli con l’eccezione significativa della cintura di stati intorno alla Germania e da essa dipendenti.
La velleità di una rapida costruzione politica degli Stati Uniti d’Europa mi pare talmente evidente, come già espressa in altri articoli, specie se corroborata da un filoatlantismo cieco come quello espresso dal Corriere e professato da Monti e dai suoi “montinari” sinistri e destri.
Per controllare e ridimensionare all’occorrenza la Germania, agli Stati Uniti di Obama è attualmente sufficiente giostrare sugli attacchi finanziari, sulla dipendenza finanziaria delle banche tedesche da quelle americane e sulle tradizionali pressioni politiche, vista la inconsistenza militare e strategica di quel paese.
Il cieco liberismo di Monti, corroborato dalla sua mediocre statura politica e compensato da un solidarismo redistributivo basato su risorse sempre più risicate, porterà, se coronato da successo, alla totale complementarietà del paese al blocco occidentale in una posizione, però, del tutto subordinata ed insignificante. Sino agli anni ’80, in epoca di bipolarismo, il paese aveva una posizione geostrategica importante, possedeva ancora una grande industria strategica, anche se appesantita dal clientelismo e dall’assistenzialismo e una piccola e media industria complementare ma indispensabile alle necessità soprattutto della Germania.
Oggi la posizione geostrategica è meno importante, la grande industria rischia la liquidazione totale, quella piccola e media è esposta alla concorrenza dei paesi della cintura centro-orientale, direttamente controllata da quella tedesca, l’imprenditoria di tipo manageriale è direttamente asservita, quasi integralmente, alle imprese straniere e al controllo politico americano e franco-tedesco.
In questo quadro, la strategia di Monti avrebbe bisogno di tempo e di risorse residue più consistenti.
I continui attacchi speculativi e i primi dubbi serpeggianti sui giornali anglosassoni e americani sono lo stimolo necessario a proseguire in questa politica, a intimorire i possibili avversari, ma possono essere anche un pesante avvertimento a fare presto.
Tutto dipende dal contesto internazionale, dalla competizione con gli stati potenzialmente alternativi agli Stati Uniti e dalle risorse necessarie a condurre la battaglia da drenare tra i paesi più deboli politicamente.
Sullo scenario le incognite, però, si aggrovigliano. La diversa tempistica richiesta dalle opzioni geostrategiche, dalle dinamiche economiche, specie quelle finanziarie, l’evidente condizionamento di queste ultime alle strategie, l’arretratezza e rozzezza ideologica delle forze in campo, ambito fondamentale con cui misurare gli eventi e mobilitare gli animi, spingono ad una accelerazione dei tempi che rischia di pregiudicare il risultato strategico di lunga durata di tre anni di accorta politica di annichilimento del paese in cambio di immediati obbiettivi di predazione del patrimonio nazionale.
L’accortezza rispetto agli anni ’90 è stata maggiore; persino Concita De Gregorio ha contribuito a rivelarci qualche gemma del disegno in atto. Ma il personale politico è ancora più scadente rispetto a venti anni fa.
L’Italia è un paese asservito ciecamente dal punto di vista politico, ma ancora ricco non solo dal punto di vista patrimoniale, anche da quello della capacità produttiva e tecnologica; è, però, un tassello importante ma secondario della scacchiera europea su cui il gran maestro americano sta conducendo la sua partita contro pedine di diversa importanza. Gli attacchi e le pressioni stanno coinvolgendo , man mano, anche gli stati ed i paesi più forti e strutturati.
È di lunedì la notizia che i grandi investitori e le banche di affari americane stanno ridimensionando drasticamente le riserve in euro, riducendo i portafogli di titoli pubblici europei e, soprattutto, tagliando i finanziamenti e la liquidità delle banche europee; ciò non ostante, ancora gran parte della stampa indica nella contabilità del debito pubblico, tuttalpiù connesso alla capacità di ripresa economica, il punto di debolezza dei paesi europei a fronte di stati e paesi ben più indebitati ma più solidi politicamente, militarmente, tecnologicamente.
Segno che il fronte europeo di scontro e collusioni è ben più ampio e articolato.
L’Italia appare, quindi, nel contesto, la vittima sacrificale designata dal padrone e dai suoi vassalli principali; deve subire i tempi decisi da altri e dal contesto incalzante.
Le nostre élites, purtroppo, hanno concesso generosamente, in sessant’anni, lucrandoci sopra, sin troppe armi ai nostri benefattori gentiluomini: dal deposito di due terzi delle proprie riserve auree direttamente a casa dei predatori, alla servitù tecnologica, alla feudalizzazione militare del territorio, alla frammentazione di uno stato in tante parti colluse supinamente. L’elenco potrebbe continuare.
Nella fattispecie ultima, il Commissario Europeo agli Affari Interni, il signor Barnier, ha concesso amabilmente trenta giorni di tempo per la cancellazione della golden share sulle azioni delle aziende strategiche, pena il ricorso alla Corte Europea.
Presto arriveranno le dovute pressioni sulla liberalizzazione dei servizi, con qualche impennata qui e là degli spread.
L’ennesimo esempio che il principio di libertà di mercato e di scelta è unico, ma le interpretazioni e la forza attuativa dipendono dalla solidità degli stati membri e dall’appetito dei più forti.
Sono queste le priorità decise; la rapina del patrimonio accumulato verrà successivamente, come già nei secoli bui; la riorganizzazione dello stato e dei servizi, probabilmente un problema interno irrilevante ai fini geopolitici.
In questo consiste la vera incertezza riguardante il futuro di Mario Monti.
Non ostante ciò, però, l’Italia è ancora un paese dinamico, anche se frammentato.
Investe poco in tecnologia, ma gode di un vasto patrimonio tecnologico e di conoscenze legato all’esperienza diretta dei piccoli e medi imprenditori, anche se questo tende a crescere e scomparire con essi.
Ha poche università e politecnici efficienti, ma quei pochi sono artefici di brevetti e tecnologie sperimentali capaci di implementare ed incubare, così nel loro gergo, significative attività imprenditoriali di avanguardia con il sostegno finanziario di alcune banche e l’assistenza di diversi enti pubblici.
Processi del tutto rimossi e disconosciuti dai ferventi liberisti e dai keynesiani della domanda aggregata fautori della spontaneità dei mercati e dello sviluppo guidato dalla domanda.
Quello che manca ricorrentemente è il salto verso la costruzione di imprese di medie e grandi dimensioni, necessarie a garantire l’autonomia e l’inerzia dei processi; quando il salto appare o è apparso possibile, è sempre successo qualcosa che ha interrotto o modificato le dinamiche.
È già accaduto all’ENI con la morte di Mattei, all’ENEL con la dismissione del nucleare negli anni ’60, salvo riacquisire, dieci anni dopo, le tecnologie di costruzione dagli americani; è accaduto all’informatica, con la morte di Adriano Olivetti e l’ingresso dei capitani di sventura, quegli stessi ancora purtroppo all’opera; ancora lo stesso con l’industria chimica con la sua riduzione parassitaria e la sua liquidazione pressoché totale negli anni ’80 e ’90.
Oggi si rischia la stessa situazione.
Sono le forme contemporanee di imperialismo le quali non si limitano a depredare ciecamente, ma favoriscono o tollerano forme e sistemi di sviluppo complementari o sperimentali, per poi appropriarsene una volta consolidati e garantiti gli sviluppi industriali ed applicativi.
Se all’interno del Governo Monti sarà possibile fare una distinzione tra le due opzioni di servaggio, è la differenza che potrebbe correre tra il Presidente del Consiglio, cieco servitore e beota sostenitore delle virtù liberiste europeiste e l’eminenza grigia del governo, Corrado Passera.
Le forze dominanti hanno certamente il loro ruolo e peso nei destini dei paesi, ma la responsabilità sul futuro di una formazione delle nostre dimensioni, rimane comunque nelle mani delle élites nazionali e dipende dalle loro eventuali aspirazioni di autonomia e indipendenza.
Per questo, occorre agire soprattutto nei settori manageriali, nella media imprenditoria purtroppo di nuovo attratta prevalentemente dal disegno di integrazione del circuito atlantista, nella parte dei ceti professionali penalizzati dal carattere collaterale, assistenziale e parassitario della nostra formazione.
Da lì deve sorgere l’élite in grado di offrire a parti significative di popolo una prospettiva più dignitosa e di mettere in condizioni le loro rappresentanze, ben diverse dalle attuali, di contrattare il ruolo e i benefici per esse.