Non saprei dire quando è stato che abbiamo iniziato a sentire l’esigenza di portarci addosso oggetti e dispositivi e di conseguenza a sentire la necessità anche di contenitori adeguati a un agevole trasporto degli stessi in mobilità. Quando abbiamo smesso di muoverci liberamente e con naturalezza per strada per bilanciare il peso del fardello che il mercato e quell’accezione di acquistare il superfluo che va di moda ora, la consumerization, ci hanno imposto, limitandosi a lenire solo in superficie le infiammazioni muscolari dalle posture anomale a cui tali contenitori ci costringono. Abbiamo iniziato a portare con noi il walkman prima, che non era tanto il peso del dispositivo in sé quanto delle cassette o dei cd dopo, poi il cellulare al collo e il portatile sulla schiena, e la camicia tutta sudata dietro era tutto sommato un compromesso accettabile, almeno così ci convincevamo nascondendo la chiazza arrivati in ufficio, appoggiandoci alla sedia. E lo zaino con la bretella solo su una spalla ha costituito la prima tappa involutiva verso l’asimmetria vertebrale aggiunta a tutta quella serie di disturbi alla nostra posizione eretta così faticosamente conquistata che terminano con il suffisso in -osi. Ma le stesse tradizionali ventiquattrore che una volta contenevano incartamenti e dossier, oggi celano elaboratori da asporto fatti e finiti in aggiunta a tutto il resto, e trovarsi a trenta o quarant’anni incuneati a destra o sinistra come simboli del maggiore o minore viventi non ci fa onore (per non saper né leggere né scrivere consiglierei comunque di tendere sempre a sinistra). Camminare con la zavorra ci impone di auspicare nel semaforo rosso per spezzare il percorso in tappe di riposo, quando possiamo approfittare di muretti o panettoni stradali per scaricare a terra il peso specifico del progresso sempre che qualcuno non se ne approfitti, di cotanta tecnologia abbandonata a sé stessa, e con atletici gesti di chi si vede che la povertà ha negato il passaggio allo stadio di homo interconnexus ci separi dai nostri ricordi digitalizzati. Capita no? Appoggi la borsa in mezzo alle gambe alla fermata dell’autobus, passa uno in moto che ti chiede qualcosa e ti costringe a fare un passo in avanti perché non hai capito bene e il compare dietro, altrettanto motorizzato, se ne va con tutti i tuoi giga di dati. Un danno meno costoso ma altrettanto fastidioso lo provoca il tascapane porta-pc da mettere a tracolla, quello che ti lascia la banda diagonale di sudore davanti e dietro in estate che quando te lo sfili la maglietta che indossi sembra quella della nazionale di calcio peruviana. Ma anche lì, a seconda della spalla su cui scarichi il peso del tuo cespite la schiena ne trae le dovute conseguenze e l’andatura stessa ne risente, un po’ di qua o un po’ di la. Roba da fisiatra, insomma. Ma questo e molto altro, pur di non rinunciare al kit di sopravvivenza sociale. Anzi, social.
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