Teichmann è un grande e non c'è certo la necessità di una qualsiasi mia parola di commento!
Beh, le forme le perdi più facilmente nell'oscurità, no?_Francis Bacon
Non so perchè (vedrete, Teichmann smuove l’abisso dei nostri contenuti atavici), ma il primo impatto con i suoi quadri, immediato e subitaneo, quindi non filtrato da acquisizioni a posteriori, ha sortito in me quell’effetto reminiscente di distorsione veritiera che vidi esemplato anni fa nel video Dig-In di Lenny Kravitz. Rumore visuale, grazie al quale si esibisce la bellezza.
Certo, la pittura di Lars Teichmann abdica al ruolo della raffigurazione attraverso un codice espressivo per certi versi “pericoloso”. Cézanne lottò una vita intera per superare la raffigurazione e ne ottenne una mela, Morandi dipinse sempre lo stesso quadro, Picasso ci mostrò l’oggetto da tutti i punti di vista e Bacon ci consegnò un lascito di forme organiche che rinviavano alla familiarità della figura pur essendone una distorsione.
Fu, per la pittura, l'inesauribile incontro con le cose "in carne ed ossa", nella loro corporea verità, secondo una declinazione distinta e distante dalla mera astrazione a favore della “cosalità” del dato figurativo.
Ma fu anche l'inizio del processo di emancipazione della pittura dalla raffigurazione.
Perchè, scome crisse il compianto Gilles Deleuze, la pittura deve strappare la figura al figurativo.1
Con Lars Teichmann, nella cui produzione vedo il codice dell’interferenza come griglia del visibile, la pittura compie un passo in questa direzione: ribadisce la propria libertà elevandosi ad arte non mimetica. Mai come ora la pittura può rinsaldarsi nella propria ragion d’essere, che consiste non nel rendere il visibile, ma nel rendere visibile:
In arte, in pittura come in musica, non si tratta di riprodurre o di inventare delle forme, bensì di captare delle forze. E’ per questa ragione che nessuna arte è figurativa. La celebre formula di Klee «non rendere il visibile, ma rendere visibile» non significa nient’altro. Il compito della pittura si definisce come il tentativo di rendere visibili delle forze che non lo sono.2
Come la mente umana, anche la tela di un quadro non è una tabula rasa. Ed è banalmente vero che il dato figurativo rappresenta sempre la condizione preliminare del dipingere: immagini cinematografiche, pubblicitarie, giornalistiche, narrative e illustrative, un’autentica logorrea visuale sussiste a priori della pittura.
Ma la fallacia della credenza figurativa, secondo la quale fare pittura significa portare sulla superficie di una tela vuota il visibile là fuori, finge di non sapere che in realtà tutto è già potenzialmente lì: un insieme di scarti e “prime scelte”, uno scenario già pieno di aspettative in cui il pittore deve fare ordine, trascegliendo dai dati figurativi che riempiono la sua testa e la sua tela.
E’ come una congettura scientifica già pregna di osservazione, non se ne esce: la figurazione è a priori della pittura. Ed è proprio in questo ensemble di dati che il pittore si trova a operare: o astraendo, o deformando, o concentrandosi per tutta la vita su una mela.
Lars Teichmann non deforma nè astrae. Né, d'altro canto, si accontenta di conciliare astratto e figurativo. Egli va oltre perchè strappa letteralmente la figura al figurativo. E lo fa attraverso quella che ho chiamato la griglia dell’interferenza: una sorta di rumore di fondo visuale fra osservatore e figura che va al di là del dato figurativo, come la radiazione di fondo del Big Bang si spinge al di là del tempo.
Ho detto che la sua ricerca è "pericolosa": è una lotta contro quello che Deleuze chiamava il cliché del dato figurativo, sempre risorgente dalle ceneri dell’iconoclastia come l'araba fenice. Cézanne cercò la "melità" di una mela e Morandi la "bottiglità" di una bottiglia, mentre Bacon si trovò a operare con forme organiche - occhi, naso, bocca - che non avevano nulla a che fare con occhi, naso e bocca. E la loro pittura fu un confronto indefesso con questa esperienza, perchè la lotta contro i cliché è qualcosa di terribile.3
Ma alfine quel che resta è pittura. E non è poco.
L’interferenza è il metodo con cui Lars Teichmann risolve l’immagine: una griglia che rinnova la visione, uno schermo fra l’inespressa bellezza del dato figurativo e il calcolo della composizione nel suo complesso. Dal punto di vista dell’incontro con l’immagine, mi vien da pensare per reminiscenza al video di Lenny Kravitz Dig In, dove l’immagine sopravviene, piuttosto che raffigurarsi, regolarmente interferita in una sorta di coazione a ripetere del fluxus interruptus della visione.
E mi garba pensare che l’effetto sortito dai quadri di Teichmann sia lo stesso, specialmente per quanto riguarda la parte della sua produzione improntata al depotenziamento della narratività del dato figurativo, dove la familiarità del dato viene riattualizzata da quel rumore di fondo visuale che interferisce davvero nel senso letterale del termine: un “portare attraverso”, un praticare l’ostensione della Figura con gli occhi della Pittura.
In fin del conto, nessuno si può trovare spaesato davanti a un suo quadro: ci parla di qualcosa che ci è da sempre familiare e da sempre è dentro di noi. Non la replica isomorfica del campo visivo, nè l’estrema generalizzazione del dato (ancora una volta, nè astrazione nè figurazione): Teichmann supera la figurazione rinnovando il nostro incontro con l’esperienza della visione, consegnandoci il dato figurativo ormai svincolato dalla sua natura di cliché. Una sorta di déjà vu ricorsivamente inedito, quindi: perchè sappiamo che quei campi di pittura sono anche i nostri, senza tuttavia riuscire a spiegarci il perchè. Come se Teichmann ci riconsegnasse i nostri archetipi della visione, le nostre risorse primordiali sepolte dalla figuratività garrula dei cosiddetti “tempi moderni”.
Le sue opere non si soffermano sull'elemento puramente narrativo: anche quando esso è presente, abdica a favore di una più complessa trama di carattere simbolico. L’arte non deve spiegare nulla e deve rimanere un mistero. Anche perchè credo, col rischio di scivolare in una posizione massimalista, che un pittore, se sa dipingere, debba sempre privilegiare la superiore ragione compositiva dell’opera. E Teichmann è uno che sa dipingere.
L’identità del soggetto e dei soggetti non ha ruolo. Le forme sono “astratte” ma riconoscibili, secondo un accadimento non dissimile dal memento pittorico in cui incappò Bacon con le sue “forme organiche”. La memoria del dato figurativo si estingue, i termini della diade persona/figura si scambiano. I volti e i corpi sono macchie organiche di pittura che sembrano non avere a che fare con i volti e i corpi “là fuori” allo stesso modo in cui gli occhi, i nasi e le bocche di Bacon non avevano nulla a che fare con gli occhi, i nasi e le bocche "reali". Restituendo tuttavia un dato "somigliante" al reale (uso qui il concetto di “somiglianza” in una maniera molto disinvolta. Ormai lo si è capito, che la pittura non è mai mimetica).
La produzione di Lars Teichmann si rinnova così in una maniera straordinariamente diversa nella continuità: opere in cui l'elemento narrativo si appalesa con intimi riferimenti a un universo di discorso ora simbolico ora allegorico si accompagnano ad altre caratterizzate da forti richiami alla pittura del gesto, declinandosi alfine in un'astrazione “informale” che prescinde totalmente dall'elemento narrativo. Consegnando l'uso del colore e del bianco e nero a un criterio di funzionalità, che non necessariamente trova il proprio fondamento in una particolare strategia estetica ma anzi si potrebbe anche spiegare col fatto che a Teichmann, come a tutti i pittori, ogni tanto il colore viene a noia.
Perchè questa immagine è come il percorso di un acrobata su una fune tesa fra la cosiddetta pittura figurativa e la pittura astratta. E' un tentativo di fare arrivare la cosa figurativa dentro al sistema nervoso con maggiore violenza, con maggiore intensità.4
La stessa impressione che ho provato guardando i quadri di Lars Teichmann. Lo stesso movimento reminiscente che mi ha fatto correre a un video di Lenny Kravitz di tanti anni fa. Scorribande del pensiero che si provano quando si sente con l’occhio della mente quella recondita armonia fra le arti che parlano un linguaggio universale.
E comunque, quel che resta è pittura.
1. Gilles Deleuze, Francis Bacon. Logica della sensazione, Quodlibet, Macerata, 2008, p.29; Francis Bacon. Logique de la sensation, Éditions de la Difference, 1981; Éditions du Seuil, 2002
2. Ibid., p. 117
3. Ibid., p. 159
4. David Sylvester, Interviste a Francis Bacon, Milano, Skira, 2003, p. 13; Thames & Hudson Ltd, 1993; Francis Bacon talking to David Sylvester, BBC, March 23, 1963; The Art of the Impossible, Sunday Times Color Magazine, July 14, 1963
Galleria Rubin via Bonvesin de la Riva 5 20129 Milano
giovedì alle 19.00 - 30 ottobre alle ore 19.00