Ogni tanto, vagando sui social network, mi capita di imbattermi nelle foto di qualche ex allievo neo laureato, sorridente, incoronato da un serto d’alloro (laureato appunto), circondato da frotte di amici gaudenti e parenti commossi.
Poi capita che sul tavolo dell’aula professori compaia una vezzosa bacinella ricolma di confetti rossi, segno che qualche tenero virgulto ha finalmente raggiunto l’agognata meta fregiandosi dell’altisonante titolo di “dottore”.
Immagino grandi festeggiamenti, congratulazioni, regali più o meno faraonici.
Io mi sono laureata in un lontanissimo e caldissimo quattro luglio di pomeriggio, con una gonna leggera e una camicetta di lino, senza tanto pubblico: c’era mio fratello (i miei genitori non pensavano fosse importante la loro presenza) e qualche compagno di studi che aveva condiviso con me il faticoso percorso dell’istituto di filologia classica.
Dopo la proclamazione e la stretta di mano dei docenti mi ricordo che sono uscita un po’ stordita dall’aula e sono stata abbracciata da compagni e compagne che mi hanno rifilato un mazzo di fiori e una scatola con i biglietti da visita dove il mio nome era preceduto dall’altisonante “Dott.”
Poi, senza neanche bere un caffè insieme, ce ne siamo tornati a casa giusto per l’ora di cena e abbiamo festeggiato con una torta gelato (era luglio, appunto, e faceva caldo).
Sicuramente la mia laurea (e quella di mio fratello) è stata un po’ più “spartana” rispetto ai festeggiamenti che ora accompagnano il fausto evento,in fondo i miei genitori avevano sempre sostenuto che avevo solo “fatto il mio dovere” (come, del resto, per tutti gli altri numerosi esami della mia vita scolastica).
Probabilmente l’unica cosa che avevo in comune con i laureati di oggi e quell’improvvisa sensazione di vuoto, quello svegliarsi al mattino senza dover pensare a libri ed esami, quel sentirsi felici, ma un po’ smarriti.