Il Marina Bay Sands, nuova icona di Singapore. Foto di Marco Restelli
“Lavorare stanca, anche a Singapore”: con questo titolo è stato pubblicato poco tempo fa da Sette, il magazine del venerdì del Corriere della Sera, un mio reportage su Singapore, le sue grandi trasformazioni urbanistiche, ecologiche e sociali, il suo boom che attira fra l’altro un crescente numero di italiani. Un caso interessante, anche perché ora in questa ricca città-stato asiatica la gente chiede meno competizione, meno stress, più tempo per sè e migliore qualità della vita. Chissà cosa direbbe ora di Singapore, vedendola tanto cambiata, il mio “maestro” Tiziano Terzani. Ecco dunque il reportage, in attesa delle vostre osservazioni, commenti o critiche. Buona lettura, MR
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La vita può sembrare un gioco di lusso, se la si guarda di notte dal 57° piano del Marina Bay Sands di Singapore. Alla mia sinistra c’è una lunga piscina a sfioro dove alcuni fortunati mortali – clienti dell’omonimo hotel – fanno finta di nuotare e poi, appoggiati mollemente a bordo piscina, osservano dall’alto le mille luci della baia di Singapore: non solo grattacieli ma anche il candido ArtScience Museum a forma di fiore di loto, le cupole brillanti dei Theatres on the Bay e un’isoletta artificiale di cristallo e acciaio, sede della boutique di una maison della moda francese. Alla mia destra invece c’è il lounge bar più cool di Singapore, il Ku De Ta, dove stanno ballando modelle indiane e malesi, businessmen cinesi, capitani di marina britannici, perfetti rappresentanti di questa multietnica, ricchissima città-stato del Sudest asiatico.
Il Marina Bay Sands è un complesso formato da tre grattacieli che al 57° piano sono uniti da una lunghissima terrazza a forma di nave, sede appunto della piscina a sfioro, del lounge bar, e d’altro. E’ uno dei simboli della nuova Singapore. Alle spalle del Marina, di fronte all’oceano indiano, un altro luogo-simbolo: i Gardens by the Bay, un parco di 101 ettari punteggiato da 18 “alberi” alti fino a 50 metri, alcuni dei quali dotati di ascensore interno e collegati fra loro da una passerella sospesa a 25 metri di altezza. I Super-Trees (così si chiamano ) sono in effetti i più imponenti giardini verticali mai realizzati sul pianeta: strutture in acciaio a forma di albero, ricoperte da migliaia di piante e fiori. Accanto, sulla riva dell’oceano, sorgono due enormi serre a cupola, premiate nell’ottobre 2013 come miglior progetto dell’anno dal Royal Institute of British Architecture.
Inaugurati nel giugno 2012, i Gardens by the Bay hanno già attirato milioni di turisti. Ma non cercate tutto questo sulle guide cartacee italiane: non lo troverete ancora. Perché Singapore cambia alla velocità della luce, sembra che si diverta a stupire, orgogliosa di mostrare al mondo, oltre alla propria ricchezza, le proprie innovazioni.
Donna di fronte a un supertree dei Gardens by the Bay a Singapore. Sullo sfondo, una mega-serra. Foto di Marco Restelli
La fortuna di Singapore ha origine nell’anno di grazia 1819, quando Sir Stamford Raffles, ammiraglio della marina di Sua Maestà Britannica, arrivava in quest’isola dimenticata a sud della Malesia, povera e priva di risorse naturali. Raffles non si fermò qui molto tempo, ma la sua impronta rimase per sempre: decise di trasformare l’isola in una stazione commerciale, firmò con il governatore malese un accordo per farne un porto franco, incoraggiò le navi mercantili a utilizzarlo, definì perfino le linee-guida dello sviluppo urbano, dividendo la nascente città in quattro aree e attribuendone ciascuna a un’etnia: cinesi, malesi, indiani e britannici. Singapore era fatta. L’ammiraglio tornò per sempre a Londra ma il dominio britannico sull’isola durò fino al 1959, dando vita a un vorticoso sviluppo economico cui molto contribuirono i mercanti cinesi. Oggi sul luogo dello sbarco originario sorge una statua di Sir Raffles, a lui è intitolato il più elegante e celebre palazzo coloniale della città – il Raffles Hotel appunto – e nel centro storico permane ancora la divisione dei quartieri “etnici”. Ciascuno con i suoi templi vecchi e nuovi – buddhisti, induisti, musulmani – e con peculiari ritrovi dedicati alle cucine tradizionali: gli hawkers, capannoni brulicanti di chioschi di street food cinese o indiano, dove si mangia bene spendendo davvero poco.
Ovviamente moltissimo è cambiato nella città-stato, a partire proprio dalla composizione etnica: oggi appare strano entrare in un quartiere chiamato “Chinatown” dato che il 75% dei singaporeani sono di origine cinese e vivono in tutte le zone della città. Ma l’eredità di Sir Raffles non si tocca, perciò Chinatown, Little India, il quartiere coloniale e la zona malese di Kampong Glam sono ancora lì.
La novità è che il miracolo economico singaporeano – una crescita media dell’8% annuo, con l’85% degli abitanti che è proprietario di casa – sta attirando immigrati non solo dalla vicina Malesia ma anche dall’Occidente. Italia compresa. «Oggi sono quasi 2.500 gli italiani che vivono qui, un numero che triplica ogni cinque anni», spiega il giovane e dinamico Ambasciatore italiano a Singapore, Paolo Crudele. «Lavorano in settori trainanti come la meccanica di precisione, la moda, l’agroalimentare e la farmaceutica. Le relazioni con l’Italia sono ottime e nell’ultimo anno c’è stato un interscambio di 3 miliardi di euro. Singapore è l’ hub logistico-finanziario del Sudestasiatico, una virtuale capitale di questa ricca parte dell’Asia. D’altronde», prosegue l’Ambasciatore italiano, «ci sono tutte le condizioni giuste: geografiche, perché l’isola è in una posizione strategica; culturali, perché qui c’è una grande apertura al mondo occidentale; antropologiche e giuridiche, perché i singaporeani sono partner affidabili. Tutto ciò ne fa una città accogliente e sicura».
Il Sudestasiatico oggi è l’area economica più dinamica del mondo, e attira le ambizioni di tutti: proprio per questo, per battere la concorrenza di Washington e di Pechino, in settembre l’Unione Europea ha firmato con Singapore una bozza di accordo di libero scambio, senza dazi e barriere; nello stesso mese il Presidente del Consiglio Enrico Letta ha incontrato, durante il G-20, il suo omologo singaporeano Lee Hsien Loong.
Singapore attira e piace a tutti, dunque. O quasi. Fra quelli che non amavano il suo volto modernista e rampante c’era il giornalista-scrittore Tiziano Terzani, che quasi vent’anni fa, nel suo bellissimo libro Un indovino mi disse, la definiva «Un’isola ad aria condizionata». Così scriveva Terzani: «L’intera isola era come sotto un’enorme campana di vetro in cui cresceva una vita artificiale ed efficiente che non aveva più nulla a che fare con la natura attorno, con il caldo dell’equatore». Terzani lamentava la perdita delle tradizioni e delle atmosfere multicolori del “vecchio Oriente”, nonché l’invadenza dei centri commerciali (oggi in città se ne contano 150, molti di gran lusso e con grande spazio alla moda italiana: lo shopping è lo sport nazionale dei singaporeani). Terzani temeva, insomma, che Singapore avesse perso l’anima e la vivacità per inseguire soltanto il business. In effetti, in un primo viaggio qui alla fine degli anni Novanta, la città mi apparve moderna ma austera e grigia.
Negli ultimi cinque anni però è cambiato non solo lo skyline ma anche le aspirazioni degli abitanti. In settembre il quotidiano singaporeano Straits Times ha dato grande evidenza ai risultati di un sondaggio dell’istituto Osc (Our Singapore Conversation). Sotto il titolo generale Taking it slow, cioè “prendersela con calma”, negli articoli si susseguono le voci di cittadini che chiedono ritmi di lavoro meno stressanti, migliore qualità della vita, più tempo da dedicare alla famiglia, più aree verdi e una competitività meno “feroce” sia nelle aziende sia nelle scuole superiori. Poco tempo dopo, all’inizio di ottobre, la leader birmana Aung San Suu Kyi si è recata in visita a Singapore e a margine dei colloqui politici ha dichiarato la propria ammirazione per il successo economico della città ma anche l’auspicio che Singapore adotti uno stile di vita meno “materialista”, più rilassato e attento alla famiglia. Apriti cielo! Le frasi della leader birmana hanno scatenato sulla Rete un dibattito in cui la maggioranza degli intervenuti le dà ragione. Ecco per esempio cosa scrive, sul sito globalvoicesonline.org, un utente che si firma Xuyun: «Aun San Suu Kyi ha bucato la bolla che avvolgeva le nostre menti materialiste, mostrando il vuoto che si celava oltre quella magnifica facciata su cui abbiamo costruito la nostra autostima e il nostro successo. Il PIL non può essere rincorso fino al punto da ridurre la qualità della vita di buona parte delle persone, e il PIL da solo non definisce lo spirito di una nazione». Un altro ribatte: «ci stiamo evolvendo da città solo job-oriented a città anche life-oriented».
E’ la rottura dell’ideologia su cui si fondava Singapore: la sacralità del lavoro come unico scopo degno dell’esistenza. Ed è il segno di un ricambio generazionale: i trenta-quarantenni chiedono una migliore qualità della vita per sé e le proprie famiglie. Singapore ha cominciato a sognarsi diversa: più vivibile e più verde, con parchi e giardini pensili che spuntano ovunque; più rilassata nei suoi ritmi di lavoro; più divertente, con una vivace vita notturna che prima non esisteva; indubbiamente più attraente e spettacolare.
Sì, l’aria in città è cambiata, e Terzani, se fosse qui, ne rimarrebbe stupìto. Quando i nuovi singaporeani osservano la propria città, dal 57° piano del Marina Bay Sands, sognano che diventi la nuova Regina d’Asia. Ma non sono più disposti, nella corsa, a perdere la propria anima.