Quello a cui ci si riferisce con "lavoro ai giovani" è perlopiù un mercato effimero di situazioni impiegatizie precarie, qualcosa per far quadrare conti e coscienze e che non ha nulla a che vedere con la produttività reale, con ciò che è fonte di reddito buono e duraturo. "Lavoro ai giovani" significa stornare una parte dei soldi pubblici per una c.e.p., per un allargamento del bacino di voti a favore di un intasamento del mercato del lavoro, senza nessun interesse a risolvere questa struttura a imbuto che strozza la società.
"Lavoro ai giovani" significa annullare le possibilità di carriera: non dico di avanzamento, bensì proprio di continuazione della propria attività lavorativa. Il "lavoro ai giovani" manca perché non è previsto nessun salto di qualità nella professione, salvo per quei pochissimi che raggiungono posizioni dirigenziali di altissimo livello: il "lavoro ai giovani" manca perché manca l'avanzamento professionale e tutti i lavori sono schiacciati tra un imbuto che si restringe sempre più e una massa che preme con maggiore forza e naturale asfissia.
Quello che si intende con "lavoro ai giovani", inoltre, è quel meccanismo per cui i lavoratori già avviati e privi della possibilità di un avanzamento, meno che mai di un salto (anche perché tenuti a bada da una sistematica assenza di qualificazioni ritenute valide), si trovano a competere contro forze giovani da assumere (e sfruttare), con una politica che favorisce in modo unilaterale queste ultime per ridurle subito nello stesso stato di coloro che avevano superato. Ovvero, si tratta solo di alimentare solo l'ingorgo, il carnaio. L'indice occupazionale da valutare dovrebbe essere proprio la carriera della classe media.
E c'è di più: "lavoro ai giovani" significa anche, in nome di contraddittori sindacalismi, prediligere pregiudizialmente l'età rispetto al valore, cioè fornire tutti ugualmente di uno stipendio, senza nessun riguardo alle competenze e alle specializzazioni, vanificando qualunque speranza di essere ambiziosi e di puntare in alto. È per questo, immagino, che in molti siamo favorevoli per esempio all'abolizione delle province: non si tratta di millantare improvvise competenze amministrative, si tratta di smussare il meccanismo per cui l'unica carriera possibile è il balzo a vacue e pagatissime poltrone di comando.
Io che sono fortemente europeista, e mi riferisco a quella cultura europea di cui parlano Auerbach e Curtius, quella cultura senza confini che ci unisce, mi accorgo tuttavia che le politiche europee sono finalizzate ad adeguare statisticamente standard che non hanno niente a che vedere con il sostrato comune a tutti questi diversissimi paesi. Quest'Europa qui - dello spread e dei capi di governo - non mi interessa; sarò stupido, ma sogno un'Europa della gente, un'Europa dove siano le persone, non le merci, a spostarsi.
(E ho anche il sospetto che tutta la polemica sulla costituzione europea nasca proprio da due diverse idee di Europa, non tra origini cristiane e non. Mi sembra ovvio che, sul piano di un'antropologia comune, le radici europee siano greco-latine e cristiane, e dico cristiane anche per i non credenti. Non c'è bisogno del crocifisso appeso per sbandierare una fede che si può legittimamente non condividere, ma ce n'è senz'altro bisogno per affermare un'origine, una storia, un'idea di Europa fatta di persone che vivono e si danno da fare per costruire. Costruire, non avere un lavoro.)
E invece l'Italia - al traino di un'Europa che non riconosco - parla di programmazione, di allineamenti, di un futuro per cui dobbiamo sempre pagare e che non fa bene a tutti noi che riceviamo sempre un estratto conto in rosso e la colpa per il suo deficit. A quest'idee di futuro, a questo strepito di "e poi?", preferisco di gran lunga l'estetismo di un decadente "e ora?": godere e vivere la vita, lavorare sulla vita. Imparare e non solo sapere, costruire e non solo abitare. Più lavoro per tutti e più vita per i giovani. O non si spiegherebbe Cetto Laqualunque.