Le ultime stime I.S.T.A.T. rivelano che in Italia vi sono 3.293.000 disoccupati. Ciò non è corretto, lavorano tutti, solo che essi vanno ricompresi in base a nuovi e inusuali modelli interpretativi, tuttora inesistenti.
Circa 2,500.000, e forse più, sono i lavoratori in nero, il resto sono ciò che una volta, sfogliando i libri di storia, avremmo indicato con il nome assoluto di schiavi e che oggi alcuni chiamano “L’Italia negra”, oppure, secondo il linguaggio dei burocrati di Bruxelles, il popolo dei non coperti dall’ombrello delle politiche sociali europee.
L’ultimo libro di Roberto Colantuono, ”Lavorare in nero. Breve manuale a tutela del lavoratore irregolare”, per IEMME Edizioni, è un buono spunto di riflessione su un fenomeno ancora molto difficile da delimitare teoricamente. A partire dalla propria esperienza di avvocato l’autore considera il lavoro nero come la parte più consistente delle pratiche giuridiche attualmente in corso in Italia. I lavoratori in nero, secondo Colantuono, sono molto diffusi, una sorta di “cattiva abitudine con grandi dosi di trasformismo”.
Senza ombra di dubbio all’interno del lavoro nero vanno compresi tutti coloro che offrono prestazioni occasionali o senza contratto, straordinari non contabilizzati, false partite iva, le più svariate forme di precariato e collaborazioni atipiche. Questo discorso non vale più solo per i semplici manovali, ma anche per tutti coloro che possono vantare profili tecnici con esperienza pluriennale, percorsi universitari specialistici e dottorali di alta qualità.
Che siano architetti, avvocati, medici, ricercatori, analisti, manager o camerieri, muratori, meccanici, non conta; la vecchia dialettica tra borghesia e proletariato non è in grado più di esaurire il loro quadro critico e le vecchie concettualizzazioni non sono più all’altezza di riflettere i margini di sfruttamento, le superfici di antagonismo e di rivolta organizzata.
Il conflitto tra capitale e lavoro ha assunto nuove forme e classificazioni; è divenuto più asettico, più scientifico, più globale. Alle vecchie categorie vanno aggiunte nuove nozioni capaci di integrare quelle persone che non hanno la stretta necessità di essere regolarizzate (come studenti e pensionati, i quali sono portati ad esercitare una concorrenza sleale nei confronti di coloro che puntano su un lavoro stabile per sostenere il loro sostentamento, il loro risparmio, le loro progettualità) e che in quanto tali sono disposte a rinunciare ad ogni tipo e forma di assistenza e garanzia, ma anche tutti i migranti, i clandestini e le nuove declinazioni plebee o del sottoproletariato urbano.
Come in molte altre cose Napoli e il Mezzogiorno offrono punti di vista privilegiati per l’osservazione di questo fenomeno. Le nostre periferie pullulano di invisibili, di schiavi e ciò, perché le recrudescenze del capitalismo neo-liberale si sono già e più velocemente, stratificate storicamente; sono dunque più evidenti e più scremate dalle loro deviate rappresentazioni.
In Italia meridionale un lavoratore in nero, con una bassa scolarizzazione ma con una maturata esperienza lavorativa, costa la metà di uno regolare; per non parlare del migrante clandestino o di qualsiasi sottoproletario, con cui il costo del lavoro è quasi dimezzato, ottenendo regimi di schiavitù vera e propria.
Il lavoratore in nero non ha nessun vantaggio rispetto a quello regolare, non matura alcun diritto alla pensione, ha una contribuzione giornaliera minore, se non quasi dimezzata, rispetto ai primi, non ha una giornata lavorativa stabilita, non ha garanzie in merito al pagamento del suo salario; anzi ha più oneri che privilegi: non gode di nessuna assicurazione sanitaria e anti-infortunistica, non gode di ferie, non ha un giorno di riposo settimanale, deve garantire la copertura continua e senza intervallo, giornaliera e settimanale del ciclo produttivo (con picchi di 18/20 ore giornaliere), non usufruisce di mensa o di buoni pasto, non ha diritto di sciopero e di contrattazione.
Secondo Colantuono le ragioni che sembrano spingere al lavoro nero sono meramente economiche, eppure, secondo il nostro modesto parere non è così. Le ragioni sono anche e primordinalmente, sociopolitiche, in quanto si tratta in fin dei conti di una lotta per il riconoscimento e per l’infrazione della propria invisibilità, “negrezza”, una lotta tra masse dominanti e masse subalterne, tra signoria e servitù.
La soglia esistente tra la selvaggia biologia e la storia costituzionale di un’identità collettiva è il politico puro; la realtà incandescente e anonima, in cui alberga il desiderio di riconoscimento, da cui qualsiasi storia può avere inizio e unità.
Il problema è complesso e non tutto obbedisce a concatenazioni di natura causale o meramente economica. Ai giorni nostri necessitiamo certamente di una nuova e rigorosa critica all’economia politica, capace di restituirci consapevolmente alle dialettiche del nostro sfruttamento, alle condizioni che ci strutturano e ci determinano, nel nostro conflitto e nelle nostre rappresentazioni.
Un’analisi di tal genere non può non assumersi e gettare uno sguardo a tutto tondo sulle cose, uno sguardo illuministico, possibilmente predittivo e performativo, sulla dialettica degli eventi che ci stabiliscono e ci tramano.
Dobbiamo aspettare fatalisticamente il prossimo teorico del secolo o ci sono realtà collettive che sin da adesso lavorano al cambiamento di questo stato di cose?
Sicuramente un punto di partenza condiviso potrebbe essere quello di ritornare a pensare, mettendo finalmente da parte coloro i quali pretendono di riflettere per noi e che come i sindacalisti e i partiti politici dell’oggi non hanno più nulla da dire e da insegnare.